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Tutta la verità sul cranio del brigante

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Parla Maria Teresa Milicia, antropologa calabrese dell’Università di Padova e autrice dell’inchiesta-verità su Giuseppe Villella, il pastore calabrese che ispirò Cesare Lombroso, utilizzato per anni dai neoborbonici come simbolo della repressione del Mezzogiorno ad opera dei piemontesi: «Quando iniziai la mia ricerca pensavo di essere di fronte a un vero movimento di protesta. In realtà era una “truffa”, architettata per motivi politici». 

Il cranio conteso di Giuseppe Villella

Siamo alle battute finali (o quasi) della contesa tra il Comitato tecnico-scientifico “no Lombroso”, una propaggine bizzarra della galassia neoborbonica, e il Museo Lombroso di Torino.

L’oggetto di questo duello, su cui i militanti del Comitato si sono giocati la loro credibilità, è il cranio di Giuseppe Villella, un pastore calabrese morto in carcere a Pavia nel 1870, dopo essere stato arrestato per reati comuni contro il patrimonio.

Ma per i neoborbonici Villella fu altro: il simbolo della resistenza meridionale e calabrese contro l’invasione dei piemontesi o, addirittura, un brigante partigiano.

Ed ecco che, a partire dal 2011, attorno alle spoglie del pastore, conservate nel Museo torinese, si è scatenato il braccio di ferro: secondo i “no Lombroso” il cranio dovrebbe essere restituito a Motta Santa Lucia, il paesino del Catanzarese di cui Villella era originario, anche con le cattive.

L’antropologa Maria Teresa Milicia durante un’intervista

Infatti, la battaglia del Comitato è partita dalla rete con le consuete petizioni on line, si è materializzata in qualche piazza, soprattutto quella antistante il Museo Lombroso, è approdata in alcune istituzioni (nel Consiglio regionale calabrese, che nel 2015 ha approvato una mozione tuttora ferma, e in Parlamento) ed è finita in Tribunale con esiti alterni: dopo una prima vittoria ottenuta dal Comitato nel 2012 davanti al giudice di Lamezia Terme, la Corte d’Appello di Catanzaro ha rigettato le pretese dei neoborbonici nella primavera del 2017.

Ora, mentre si attende che la Cassazione metta la parola fine, Domenico Iannantuoni e Amedeo Colacino, cioè il presidente del Comitato e il sindaco di Motta, tentano un’ultima sortita istituzionale con la consegna di un incartamento corposo, che comprende Cento città contro il Museo Lombroso (il mattone scritto da Iannantuoni assieme a Rosanna Lodesani e Antonio Schiraldi e pubblicato nel 2016 dalla milanese Magenes) alla deputata grillina Annalaura Orrico e alla ministra del Sud Barbara Lezzi.

Un colpo di coda o un segnale di ripresa? Difficile a dirsi, perché l’ultima parola spetta comunque agli ermellini. Nel frattempo, parla l’antropologa Maria Teresa Milicia, vittima a più riprese degli strali mediatici dei “no Lombroso” e dei neoborbonici.

La professoressa Milicia è calabrese di Cittanova, vive tra Roma e Padova, dove insegna Antropologia culturale all’Università, è allieva di Luigi Maria Lombardi Satriani e studia da sempre il suo Sud.

Domenico Iannantuoni, il presidente dei “no Lombroso”

La sua colpa? Aver smontato pezzo per pezzo la narrazione su cui il Comitato ha imbastito la propria battaglia. È colpa della Milicia aver scoperto la vera identità di Villella. È colpa sua aver smentito l’ipotesi secondo cui Lombroso fosse il teorico del razzismo antimeridionale. Il tutto con una ricerca sul campo, iniziata nel 2011 e culminata nel 2014 con Lombroso e il Brigante. Storia di un cranio conteso, un bel volume pubblicato dalla romana Salerno.

Ma, evidentemente, le ragioni della scienza non interessano a chi, sulla scia del successo ottenuto dal revisionismo antirisorgimentale di Pino Aprile, tenta di far cassetta, nell’editoria o in politica, sfruculiando i malesseri del Sud.

Come e perché una ricerca su Villella?

Vorrei chiarire subito che non mi sento e non sono affatto una vittima. Gli antropologi fanno ricerca sul campo, studiano i fenomeni dall’interno con il metodo dell’osservazione partecipante. Questo comporta sempre un grado di incertezza e di imprevedibilità, di conseguenza anche dei rischi che il ricercatore sa di assumersi fin dall’inizio. Solo dopo una fase esplorativa delle condizioni di praticabilità della ricerca si può anche decidere di abbandonare il campo o di andare avanti, assumendosi per quanto possibile un rischio calcolato.  Per esempio, Maddalena Gretel Cammelli nel 2013 aveva deciso di avviare una ricerca etnografica sul movimento CasaPound. Dopo una serie di incontri, l’antropologa ha deciso di non proseguire il lavoro sul campo perché non ha accettato le condizioni poste dai leader del movimento per lavorare da insider. Ne è nato comunque un saggio assai ricco di spunti metodologici e interpretativi. Per tornare alla domanda,  quando nel 2011 venni a sapere della protesta contro il Museo Lombroso, mi trovai di fronte al terreno di ricerca  ideale  per un antropologo: la battaglia per la restituzione del cranio di Giuseppe Villella presenta analogie con le iniziative intraprese dei popoli nativi delle nazioni colonizzate del Nordamerica, Australia e Nuova Zelanda che uniscono alle rivendicazioni di sovranità territoriale l’affermazione del diritto di proprietà sulle collezioni museali di resti umani acquisiti in vario modo per ragioni scientifiche o anche solo estetiche, come fu il caso delle toi moko, le famose teste tatuate dei Maori. Tant’è che è sorto un filone di ricerca importante: i repatriation studies. Fui colpita e incuriosita dal fatto che un caso del genere si verificasse in Italia e avesse come epicentro la Calabria. Per questo mi sono sentita investita del ruolo di antropologa nativa, una definizione pertinente che ha molto disturbato chi si sente il portavoce esclusivo delle rivendicazioni native. Lo trovo un dettaglio divertente.

La copertina di Lombroso e il Brigante

Aveva già l’idea di scrivere un libro?

Pubblicare fa parte del lavoro di comunicazione dei risultati di qualsiasi ricerca. Avevo pianificato una ricerca sul campo a Motta Santa Lucia, il paese dove nacque Villella, con i classici tempi lunghi necessari per gli studi etnografici. Intendevo studiare il movimento di protesta, convinta che partisse da Motta Santa Lucia, come risultava dai resoconti giornalistici e dalle notizie sul web che lasciavano intendere parenti in lutto per il rifiuto del museo razzista.

Quindi non con l’idea di confutare la narrazione dei “no Lombroso”.

Assolutamente no. Al contrario, mi sono preoccupata di capire se ci fosse veramente un intento razzista contro i meridionali. Se la narrazione dei “no Lombroso” avesse avuto un fondamento reale, non avrei esitato a prendere posizione. Ma la questione non stava in piedi in partenza: in Italia, finché ancora vige uno stato di diritto, sarebbe impossibile aprire un museo dichiaratamente razzista e per giunta contro gli stessi cittadini italiani. Questa mistificazione si basa sulla campagna di delegittimazione di tutte le istituzioni dello Stato portate avanti nell’ultimo decennio. Altra cosa è avanzare critiche sull’allestimento, discutere di orientamenti museografici, non essere d’accordo con l’esposizione museale di resti umani, esprimere opinioni sull’opportunità di esporre il cranio di Villella come un mero reperto scientifico, tutti temi oggetto di dibattito che non hanno nulla a che fare con gli argomenti del Comitato “no Lombroso”. L’Icom (International Council of Museum) Italia e l’Icom Internazionale, organismi associati all’Unesco che rappresentano le comunità museali di tutto il mondo, li hanno ritenuti inconsistenti sulla base di un codice etico internazionale.  Come sarebbe potuto accadere se si trattasse di un museo che celebra un criminale di guerra, che espone come trofei i resti del genocidio dei meridionali e amenità di questo genere?

Questa affermazioni derivano dalla costruzione di una controstoria dell’unificazione che scoprii quando iniziai le mie ricerche in rete: si parlava dei briganti come partigiani antipiemontesi e dei piemontesi come nazisti, della repressione del brigantaggio come genocidio, del Regno delle Due Sicilie come un paradiso distrutto dall’unificazione.

Il giornalista Pino Aprile

Tutte le parole chiave del revisionismo di Pino Aprile.

Che io non conoscevo. Fino a quel momento ero ignara delle polemiche sul 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia.

Ma qual è stato il motivo determinante per arrivare a Motta Santa Lucia?

Per me era quello in partenza l’unico terreno di ricerca, convinta che ci fosse una comunità locale in rivolta o comunque impegnata nella valorizzazione di un personaggio locale effettivamente noto. Anche se mi sembrava strano non aver mai sentito parlare, da calabrese, di un famoso brigante, addirittura di un patriota del Regno delle Due Sicilie. Di Villella non c’era neanche traccia nei testi classici sul brigantaggio: mi riferisco a Tommaso Pedio, Alfonso Scirocco, a Franco Molfese, ma anche al classico divulgativo di Aldo De Jaco, uscito nel 1974, per nulla tenero con i piemontesi. Neppure Vincenzo Villella, membro della deputazione calabrese di storia patria, originario di Conflenti, vicino a Motta Santa Lucia, esperto di storia locale ha mai trovato menzione di Giuseppe Villella. L’unica fonte scritta su di lui era Lombroso. Ma questo l’ho accertato dopo. Sono andata a Motta Santa Lucia sperando di trovare una tradizione orale che per qualche ragione nessuno aveva mai documentato prima.

Con che risultati?

Appresi subito dal sindaco Amedeo Colacino, che a Motta nessuno aveva mai sentito nominare il “famoso brigante” Villella. Perciò decisi di avviare le ricerche negli archivi. Da questi sono emersi dati biografici in contrasto con quello che i leader della protesta e lo stesso sindaco diffondevano ormai da anni sui media. Fra l’altro, vorrei far notare che il sindaco poteva incaricare ben prima del mio arrivo lo storico Mario Grandinetti, che si è occupato di storia del giornalismo e ha pubblicato anche con l’editore Franco Angeli. Ha lavorato per molti anni a Torino, dopo il pensionamento è ritornato a Motta e si è dedicato alle ricerche genealogiche dei mottesi emigrati in America. Insomma gli archivi locali li conosce bene…

Amedeo Colacino, il sindaco di Motta Santa Lucia

Torniamo a Giuseppe Villella. Se fosse davvero emerso che era un partigiano borbonico avrebbe fatto differenza?

Una differenza enorme e, per molti aspetti, sarebbe stato meglio, almeno dal mio punto di vista: avrei avuto a disposizione un filone di studi più comodo e, di questi tempi, assai gradito a una parte dell’opinione pubblica. Un conto è scoprire una specie di Robin Hood o di Che Guevara calabrese, filoborbonico o antiborbonico poco importa, un altro, molto più difficile, trovare una documentazione che rivela l’invenzione di una biografia ai fini strategici dell’affermazione personale dei leader di un movimento politico. Per la ricerca antropologica un tema più interessante ma anche più rischioso, come accennavo all’inizio.

Ma questo filone resistenziale avant la lettre non l’ha rintracciato.

Non l’ho rintracciato semplicemente perché non esiste. Ma posso dire di aver condotto una ricerca ad ampio raggio, assai scrupolosa, ancora di più quando ho capito che sarebbe emersa una realtà indigesta ai sostenitori del “no Lombroso”. Giuseppe Villella è stato soltanto un povero ladro, su questo i documenti sono chiari, non esiste la possibilità di equivocare una condanna per furto con una per brigantaggio, meno che mai brigantaggio politico.

Come ha gestito la sua ricerca?

Ho iniziato dall’Archivio di Catanzaro e Lamezia e poi, con la piena collaborazione del sindaco, ho proseguito negli archivi del Comune e della Chiesa. Alla fine trovai la prova decisiva in un magazzino dove giacevano ammassati tutti i documenti ottocenteschi dell’archivio comunale: la trascrizione dell’atto di morte avvenuta nell’ospedale di Pavia che mi permise di identificare con sicurezza tra gli omonimi quel Giuseppe Villella, il cui cranio era stato studiato da Lombroso ed è oggi esposto al Museo Lombroso di Torino. L’allora assessore e vicesindaco Tonino Bello, che mi ha aiutato anche fisicamente a spostare i pesanti faldoni dell’archivio municipale, ha vissuto con me l’emozione dell’identificazione del brigante.

A questo punto sorse l’idea di fare un libro.

Avvertii l’esigenza di carattere etico prima che scientifico di pubblicare al più presto i risultati della ricerca d’archivio. Non mi sembrava giusto che la memoria di Giuseppe Villella fosse distorta e strumentalizzata in un modo simile a quanto aveva fatto Lombroso a suo tempo. Fu una scelta precisa, maturata anche tenendo conto che i cittadini di Motta non erano affatto coinvolti nella protesta che aveva la sua origine altrove ed era sostenuta da simpatizzanti dei “no Lombroso”, del tutto ignari della situazione locale. C’era e c’è tuttora una cortina mediatica che nasconde il paese reale. La mia stessa presenza, in qualità di ricercatrice dell’Università di Padova, diventava un modo per confermare il luogo di nascita di Villella (ricordo che prima della mia ricerca l’unica fonte era il documento di catalogazione del cranio da parte di Lombroso) e avvalorare la richiesta di restituzione da parte del comune di Motta Santa Lucia. Bastava tenere nascosti i dettagli biografici emersi e le ragioni politiche della battaglia non sarebbero state messe in discussione. Fra l’altro, per correttezza professionale e anche amicale, molto prima dell’invio alla casa editrice, ho fatto leggere il testo al sindaco.

Lo storico Alessandro Barbero

C’è da dire che Lombroso e il brigante confuta molti luoghi comuni dei sudisti. Come si è sviluppata la stesura del libro, a cui ha contribuito lo storico Alessandro Barbero, tra l’altro direttore editoriale della Salerno?

Nel corso della mia ricerca andavo ricostruendo le polemiche antirisorgimentali rilanciate dalle opere di Pino Aprile, di cui l’antilombrosismo era una parte integrante. Seppi delle polemiche, anche pesanti, subite da Alessandro Barbero, reo agli occhi dei neoborbonici di aver smontato un altro mito, secondo il quale il forte di Fenestrelle fosse una specie di Auschwitz dei Savoia. Gli scrissi per avere informazioni sugli attacchi che aveva subito: si pensi che appena qualche anno fa la pratica dell’insulto e delle minacce non era ancora considerata un problema sociale. Dopo uno scambio epistolare in cui ci si interrogava sulla questione del razzismo antimeridionale di Lombroso, è emersa l’idea di un progetto editoriale. Una volta pubblicato il libro, con la visibilità, iniziarono i problemi.

Un cranio conservato nel Museo Lombroso

Che è successo di grave?                                                                 

Avevo concordato col sindaco che la prima presentazione del libro si sarebbe svolta a Motta Santa Lucia. Ci tenevo molto, per ragioni affettive e di etica professionale trovavo giusto che fosse il paese di cui parlavo ad ospitare l’anteprima. La Stampa e Repubblica diramarono la notizia della pubblicazione, ma il problema sorse quando subito dopo il sindaco divulgò su Facebook la notizia della presentazione a Motta: io e il sindaco fummo attaccati su Facebook dal Comitato. E lui cedette alle pressioni. La sera prima della mia partenza per Motta mi comunicò che aveva dovuto annullare la presentazione del libro, nonostante fossero già state affisse le locandine, per motivi di ordine pubblico.Colacino tirò in ballo un’informativa dei carabinieri sui neoborbonici e io lo presi sul serio sapendo che era presidente onorario del Comitato Due Sicilie di Lamezia Terme, una diretta emanazione del movimento neoborbonico, doveva essere bene informato. Ne parlai la sera stessa con Massimo Novelli di Repubblica, convinta che si trattasse di una grave minaccia alla libertà di espressione. Tra l’altro, dieci giorni più tardi era in programma la presentazione del libro all’Università della Calabria assieme a Brunello Mantelli, Silvano Montaldo, Vito Teti, Marta Petrusewicz e Mary Gibson, la studiosa americana che ha curato la riedizione dell’Uomo Delinquente in inglese, e temevo che se non si fosse intervenuti subito, sarebbe sorto un problema in qualunque posto lo avessi presentato. Intanto andai a Motta, non mi ha neanche sfiorato l’idea di non partire come forse qualcuno si aspettava. Ho sempre avuto buoni rapporti con tutti e se anche davvero si fosse presentata qualche minaccia dall’esterno sapevo di contare sulla solidarietà di amici e conoscenti. Sono stata accolta come una di famiglia, l’ospitalità è sacra: ti immagini se qualcuno avrebbe potuto torcermi un capello in Calabria?

Però su Lombroso e il brigante i “no Lombroso” hanno creato un battage non proprio bello…

Infatti. Sono circolate molte menzogne, anche perché la stampa locale, nonostante l’attenzione di un grande quotidiano nazionale, non è venuta a sentire che cosa è successo veramente quando poi la presentazione a Motta c’è stata. Grazie proprio all’articolo su Repubblica, il sindaco si è affrettato a organizzare una presentazione par condicio, con il libro dello storico ufficiale del comitato che diffonde una fantasiosa ricostruzione della vera storia di Giuseppe Villella. Se fosse venuto qualche cronista locale, avrebbe potuto documentare gli interventi di molti cittadini, soprattutto i giovani, che sono a conoscenza delle mie ricerche e inoltre non condividono affatto la battaglia del sindaco. Una debacle totale del Comitato “no Lombroso” che nell’azione di propaganda sul web è stata al contrario presentata come una trionfale vittoria. Mi dispiace solo che questa falsa notizia continui a gravare sulla vicenda, perché mi è capitato spesso di dover spiegare anche a qualche collega che non sono stata contestata sul campo dai cittadini di Motta Santa Lucia.  Comunque i “no Lombroso” hanno tratto un bel vantaggio dalle polemiche e dalle calunnie: posso dire che, prima del mio libro, la loro petizione contro il Museo Lombroso languiva sulle 4mila e rotte firme, dopo la pubblicazione, queste firme hanno avuto un’impennata fino a superare le 9.000. Ho saputo, tra l’altro, che hanno raccolto anche firme nel mondo carcerario e tra gli ergastolani, dicendo che il pensiero di Lombroso fosse la causa delle condizioni della loro detenzione…

Cesare Lombroso

Ma non risulta che i “no Lombroso” o i neoborbonici si siano impegnati in battaglie pubbliche contro l’ergastolo o la detenzione in massima e alta sicurezza.

Proprio no.

C’è un insegnamento che possiamo trarre da questa vicenda, tanto più che le ragioni della scienza appaiono deboli di fronte al martellamento della propaganda?

La propaganda politica è un diritto democratico ma non può sfruttare mezzi illeciti. La “truffa” su Villella, uso il termine a ragion veduta, verrà presto a galla e sarà un’amara scoperta per tutti quelli che l’hanno sostenuta in buona fede. A lungo andare, istigare all’odio innesca dinamiche che possono sfuggire di mano e ritorcersi contro anche a chi ha creduto di trarne un vantaggio.

(a cura di Saverio Paletta)

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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