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«Razzisti e antimeridionalisti noi? Ma quando mai…». La parola a Silvano Montaldo

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Il direttore del Museo Lombroso di Torino: non siamo un ossario di briganti, contro di noi solo speculazioni durate otto anni

«Sono convinto che se avessimo intrapreso questa iniziativa in un altro periodo, tutto questo bailamme non sarebbe successo». Parla Silvano Montaldo, il direttore del Museo Lombroso dell’Università di Torino. E parla a ragione: a metà anni ’80, sempre a Torino, si svolse una mostra, intitolata La scienza e la colpa, in cui furono usati anche i reperti umani custoditi dal Museo Lombroso senza che nessuno dicesse alcunché.

Questione di tempi non ancora maturi? L’espressione è impropria perché, semmai, si dovrebbe parlare di tempi marci: probabilmente, allora, nessuno attribuiva al pensiero di Cesare Lombroso valenze politiche. Lo scienziato veronese e la sua opera erano del tutto storicizzati e se ne parlava, quando se ne parlava, nei manuali di criminologia, diritto penale e antropologia. E finiva lì.

Nulla lasciava presagire che la riapertura del Museo diventasse oggetto di strali politici e ideologici prima e di una contesa giudiziaria, tra l’altro non del tutto conclusa, poi.

La vicenda è piuttosto nota, soprattutto a Sud, dove i media l’hanno seguita molto e con molte inesattezze: il Comune di Motta Santa Lucia, meno di mille anime nel Catanzarese, supportato dal Comitato tecnico-scientifico “no Lombroso” (un gruppo di ispirazione neoborbonica molto attivo in rete), ha fatto causa al Museo per ottenere la restituzione del cranio di Giuseppe Villella, il principale reperto della collezione.

Dopo una vittoria in primo grado, il piccolo Comune calabrese e il Comitato sono stati fermati dalla Corte d’Appello di Catanzaro che, la scorsa primavera, hanno dato ragione al Museo.

Ma oltre alla storia giudiziaria, ce n’è una politica, fatta di polemiche furibonde, condotte al limite della decenza del linguaggio dal Comitato e da altri gruppi e ripresa da Pino Aprile: il Museo e i suoi responsabili sono stati accusati, a seconda dei casi, di razzismo antimeridionale, di razzismo tout court, di mancato rispetto della dignità umana e di atteggiamenti criptonazisti, a volte senza il cripto.

Montaldo, che è professore di Storia del Risorgimento all’Università di Torino, ripercorre la vicenda in maniera serafica e la commenta con una frase che sembra una massima: «Mi preoccupa soprattutto una cosa di tutta questa vicenda: il tentativo di demolire il valore delle competenze scientifiche e della cultura operato da persone che, tra l’altro, risultano tutte collegate tra loro».

Anche lei se ne esce con la teoria del complotto?

Nessun complotto. Mi limito a prendere atto che le persone che hanno iniziato, condotto e supportato la polemica, mediatica e giudiziaria, contro il Museo sono tutte collegate tra loro e tutte legate agli ambienti antirisorgimentali di ispirazione neoborbonica. Non è un caso che tra i protagonisti di questa vicenda ci siano Pino Aprile, Lino Patruno, Domenico Iannantuoni ecc., che a loro volta sono stati e sono molto attivi in altre iniziative simili, ad esempio il giorno della memoria.

Però il fatto che dei personaggi di spicco della galassia neoborbonica non vedano di buon occhio un’istituzione come il Museo Lombroso è scontato e in parte legittimo. O no?

Io non contesto le opinioni di nessuno. Semmai mi preoccupano i metodi: trovo inaccettabile non tanto il fatto che se la prendano con personaggi e periodi della nostra storia, ma che arrivino a denigrare gli studiosi e i ricercatori, non solo accademici, perché i risultati del loro lavoro smentiscono o comunque contrastano la loro narrazione. Chi fa ricerca storica vera, attività che tra l’altro non rende milionari, non lo fa perché è servo di qualcuno o legato a un potere. Lo fa in un’ottica e con scopi scientifici ed è su questo terreno che certi argomenti, compreso Lombroso, devono essere affrontati.

Dunque Lombroso non era antimeridionalista.

Certo che no. Invito chiunque a procurarsi e leggere una copia di In Calabria, uno scritto giovanile di Lombroso che risale al 1862: in questo libro, ripubblicato di recente da Rubbettino, non c’è traccia di pregiudizi contro il Sud. Al contrario, Lombroso si dimostra meridionalista avant la lettre e anticipa alcuni cavalli di battaglia di Fortunato – con il quale era in corrispondenza epistolare – e di Salvemini. Magari tutti quelli che si sono occupati della Calabria l’avessero fatto come ha fatto Lombroso in questo suo saggio giovanile…

Ciononostante, la riapertura del Museo ha scatenato un putiferio.

Io non parlerei proprio di riapertura. È vero che il Museo esisteva da parecchio tempo, ma era il Museo di Antropologia Criminale dell’Università di Torino, ricavato dalla collezione privata donata da Cesare Lombroso. Era una mostra riservata agli studiosi e agli studenti. Poi, dopo il blackout del fascismo, fu spostato nell’Istituto di Medicina Legale di corso Galilei, dove fu chiuso negli anni ’90 per il riallestimento, che ha permesso di creareun’istituzione culturale aperta al pubblico.

Forse proprio questo ha scatenato il baccano.

A dire il vero, il baccano è iniziato prima che aprissimo. Il Museo Lombroso fu inaugurato il 27 novembre 2009. Il primo novembre fui contattato da Marisa Ingrosso della Gazzetta del Mezzogiorno, che mi disse di avermi chiamato anche su richiesta di alcuni discendenti delle persone i cui resti erano conservati nel Museo. Nello specifico, mi chiese da dove provenissero quei crani.

E lei?

Risposi quel che ho già detto più o meno a tutti: solo il 10 per cento dei reperti era catalogato. E ciò credo che dipenda da due fattori. Innanzitutto, dalla sciatteria di Lombroso, che non classificò mai i pezzi della sua raccolta anatomica, poi dal fatto che il Museo fu trasferito e riaperto più volte e ciò può aver comportato la perdita di alcuni documenti. Durante il riallestimento abbiamo trovato parecchia documentazione storica, ma riguarda soprattutto l’amministrazione del Museo e della collezione, non l’identità dei proprietari dei reperti.

Ciononostante, la Ingrosso pubblico un articolo dal titolo piuttosto pesante: I briganti meridionali nella «fossa comune» del Museo Lombroso. Da allora è stato un susseguirsi di attacchi mediatici, sia attraverso la rete sia a mezzo stampa.

Culminati nella manifestazione dell’8 maggio 2010.

Esatto. Manifestarono in maniera pesante davanti all’ingresso del Museo, con tanto di bandiere neoborboniche e simboli vari. Ma non basta: il 18 luglio ricevemmo la visita del senatore Domenico Scilipoti. Con lui c’erano alcuni esponenti di quella che è stata definita la galassia: Domenico Iannantuoni, don Antonio Loffredo che benedì i crani invocandone la sepoltura, Duccio Mallamaci e Michele Iannelli. Quest’ultimo, cosa curiosa, era un omeopata e non sapeva che Lombroso fu anche presidente della Società italiana di Medicina omeopatica. Infine c’era Amedeo Colacino, il sindaco di Motta Santa Lucia

Poi seguirono le interrogazioni parlamentari nei riguardi del Museo: tre sono state fatte da Scilipoti, una da Roberto Occhiuto, una da Adriana Poli Bortone e una dal Movimento 5 Stelle.

E poi le denunce.

Ne abbiamo ricevute due per vilipendio di cadavere.

C’è da dire che il Comitato “no Lombroso” ha cambiato più volte i temi della propria battaglia, passando con disinvoltura dal rivendicazionismo meridionale all’umanitarismo e alla religiosità.

Una motivazione per stagione. Io posso dire che il Museo non è antimeridionalista, perché tra l’altro, tranne nel caso del cranio di Giuseppe Villella, è difficile davvero ricostruire le vicende dei proprietari dei reperti. E mi riferisco a quelli catalogati, che sono una minoranza. Occorrerebbe procedere, per ciascuno di questi, come ha fatto Maria Teresa Milicia per Villella. Ma dubito che i risultati di una tale ricerca potrebbero fornire dati utili a chi sostiene certe battaglie.

E per l’aspetto umanitario come la mettiamo?

La Corte d’Appello di Catanzaro ha riconosciuto lo scopo culturale del Museo Lombroso e lo status di beni culturali ai resti umani conservati nel Museo. Ovviamente sono contento di questo risultato giudiziario che, almeno, ribadisce che non siamo razzisti, antimeridionali o antiumanitari.

Non lo era neppure Lombroso.

Infatti: lui era un socialista liberale e, paradossalmente, aveva elaborato la sua teoria anche con scopi umanitari.

Resta una curiosità: era possibile allora catalogare i resti umani di una raccolta come quella di Lombroso?

Certo. Lo prova il Museo Anatomico, allestito sulla via parallela a quella dov’è allestito il Museo Lombroso. I resti umani custoditi lì furono catalogati con scrupolo da Carlo Giacomini, che arrivò a conclusioni diametralmente opposte a quelle di Lombroso. Direi, inoltre, che l’esistenza di questo Museo Anatomico possa smentire un’altra leggenda nera circolata durante la polemica, secondo la quale Lombroso si sarebbe dedicato in maniera ossessiva alle autopsie. Queste ultime furono consentite agli anatomisti come Giacomini e solo in via subordinata alle richieste dell’autorità giudiziaria ai medici legali come Lombroso. Così stabiliva il regolamento Coppino del 1885.

E prima?

Prima c’era una sorta di anarchia, nella quale erano prevalenti gli accordi tra gli Ospedali e le Università: anche in questo caso si dava la prevalenza agli anatomisti. Quindi Lombroso ottenne parecchi resti umani dagli anatomisti come Giacomini senza dover sezionare i cadaveri per trafugarne i pezzi.

Lei si identifica nel positivismo lombrosiano?

Proprio no. Il Museo ha la precisa mission di approfondire e divulgare la conoscenza di un’epoca storica, valorizzare le collezioni, favorire le ricerche degli studiosi. Nient’altro.

Le altre istituzioni e il pubblico come hanno recepito il Museo?

Direi bene: il polo museale dell’Università ha 50mila visitatori all’anno e il Museo Lombroso collabora con istituzioni prestigiose: ogni anno le sue collezioni sono richieste da diverse mostre in Italia e all’estero.

Questo a dispetto dei revisionisti…

Non la metterei su questo piano. Io dico, a proposito di revisionismo, che esiste un revisionismo sano, che è la base della ricerca storiografica. La scienza è dialettica e discussione e confutazione. In un certo senso, tutta la storia è il prodotto di un intelligente revisionismo. Poi c’è un revisionismo tutt’altro che sano, che di solito è funzionale a un uso politico della storia. Si pensi al rapporto tra il negazionismo di Irving o di Faurisson e certe destre radicali. Dunque, ben venga il revisionismo, se praticato con le regole della ricerca scientifica. Il resto è inaccettabile.

(a cura di Saverio Paletta)

 

 Per saperne di più:

Il ricorso in Cassazione dei neoborbonici

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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