Affaire Villella, lo strano silenzio della stampa meridionale
La Cassazione ha rigettato le pretese del Comune di Motta Santa Lucia e del Comitato “no Lombroso”: il cranio di Giuseppe Villella, il povero pastore calabrese che ispirò il padre dell’antropologia criminale, resta al Museo Lombroso. Stavolta in pochi hanno dato la notizia e colpisce il silenzio dei media del Sud, rotto solo dall’intervento discutibile di Romano Pitaro, che ha perso invece la classica occasione buona per tacere
L’esito è impietoso: la Corte di Cassazione ha bocciato del tutto le pretese del Comune di Motta Santa Lucia e del cosiddetto Comitato tecnico-scienfico “no Lombroso” e il cranio di Giuseppe Villella, oggetto della più bizzarra pretesa giudiziaria dell’ultimo decennio, resta in quella che la magistratura, applicando correttamente il decreto legislativo 42 del 22 gennaio 2004 (il Codice dei beni culturali), ha ritenuto la sua sede naturale: il Museo Lombroso di Torino.
La sentenza è di quelle che non fanno notizia, sia per il contenuto, che conferma un esito scontato a livello giudiziario, sia a livello cronologico, visto che è uscita lo scorso 14 agosto.
Fa notizia altro. Ed ecco perché ne parliamo ora.
Fa notizia, ad esempio, il fatto che la stampa abbia parlato poco e male di questo esito. Soprattutto la stampa meridionale, che ha fiancheggiato di fatto le pretese del sindaco di Motta e del Comitato almeno fino al 2017, quando la Corte d’Appello di Catanzaro ha dato il primo consistente alt, rigettando tutto.
Quest’ultima ha taciuto, con la sola consistente eccezione di Romano Pitaro, direttore dell’ufficio stampa del Consiglio regionale della Calabria e direttore responsabile del web magazine Calabria on web.
Il 21 agosto, quindi a sentenza ancora calda, Pitaro è intervenuto sul Corriere della Calabria con un centone di inesattezze, intitolato «Villella, se la giustizia non assolve la storia condanna».
(Vai all’articolo di Pitaro sul Corriere della Calabria).
Nell’articolo, Pitaro fa di tutto: inanella citazioni storiche inappropriate e sciocchezze giuridiche, pur di criticare gli Ermellini con un trucco retorico vecchio e, in questo caso, un po’ stantio: la contrapposizione della giustizia sostanziale al diritto formale. Il tutto con un sottinteso non proprio leggero: se avesse vinto la prima, il povero Villella (o meglio, il suo celebre cranio) sarebbe stato seppellito a Motta Santa Lucia e non avrebbe subito l’onta della perenne carcerazione nel Museo torinese, a cui l’avrebbe condannato il formalismo giuridico.
Leggere per credere:
«Villella, l’ha deciso la Cassazione una volta per tutte, resta nella teca, ma perché deve restare in quel carcere chiamato museo un sottoproletario calabrese colpevole d’essere nato in un’epoca in cui l’esordiente Italia gettava in carcere (o fucilava) briganti e mortidifame del Sud e nel cui cranio, quando Villella morì, Lombroso, le cui teorie sono state maciullate dalla scienza universale, disse di aver trovato la prova per le sue farneticazioni? Non è forse vero che l’esposizione di quel cranio umano nel museo viola ogni norma giuridica, etica e religiosa? Viola prima di tutto le norme che impongono che il cranio di una persona debba essere seppellito. Viola la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata nel 1948, che esige il rispetto dell’uomo e dei resti mortali. Va contro i dettami biblici e quelli della cultura greca che ha animato l’Occidente».
Al netto della retorica e del periodare ampolloso e non proprio felice, Pitaro è riuscito a far capire di non aver letto la sentenza della Corte d’Appello e l’ordinanza della Cassazione oppure di averle lette e, ciononostante, di arrampicarsi sugli specchi.
Infatti, le sue affermazioni possono applicarsi benissimo ad altri resti umani eccellenti: giusto per fare due esempi, le mummie antiche (egizie e non) e le reliquie dei santi. E proprio per tutelare la destinazione al pubblico di questi resti in maniera organica è stato approvato il decreto legislativo 42.
Se, viceversa, questa normativa non fosse esistita e l’avesse spuntata il Comune di Motta Santa Lucia (e i suoi fiancheggiatori antilombrosiani) si sarebbe creato un precedente pericolosissimo per tutti i musei archeologici e di storia naturale. Siccome i folli (nel senso buono e cattivo del termine) non mancano mai, non sarebbe stato improbabile lo spettacolo di associazioni speciste e animaliste alla carica per pretendere la sepoltura di dinosauri e mammut, o di qualche dittatore africano pronto a rivendicare le mummie di un faraone o di qualche guerriero, magari sulla base di quella vecchia retorica anticoloniale che ancor oggi fa presa attorno all’equatore.
Per il resto, sempre a proposito di retorica, il pezzo di Pitaro odora non poco di sacrestia sanfedista e gramscismo andato a male, quell’intruglio che è riuscito a mandare a male molto meridionalismo e che riemerge prepotente in certa narrazione neoborb. Non male per un giornalista professionista che, al riparo di un bel posto pubblico, si può permettere il lusso di violare una norma deontologica comune a storici e giornalisti: la verifica di ciò che si scrive. E infatti straparla e si lancia in un’allusione non bellissima verso gli Ermellini:
«Nessuno crede che la Corte di Cassazione, per negare la sepoltura di Villella […] abbia subito condizionamenti».
Per il resto, a quel che risulta, tutti gli altri organi meridionali non hanno neppure dato la notizia. Perché il fatto è irrilevante? Forse.
Ma non lo era quando, con un’incredibile fake, la Gazzetta del Mezzogiorno aveva dato il via alle danze nel 2009. Oppure quando, nel 2012, l’argomento balzò all’onore delle cronache perché il Tribunale di Lamezia aveva dato ragione al Comune di Motta Santa Lucia con un’ordinanza maciullata (questa sì!) nel 2017 dalla Corte d’Appello di Catanzaro.
Il fatto, inoltre, non era rilevante quando le voci contrarie erano poche e subivano due cose.
La prima è stata la mortificante parità delle armi da parte degli organi di informazione, che consentivano la replica agli esponenti del Comitato “no Lombroso” (e in particolare al suo presidente-animatore Domenico Iannantuoni) per ogni controdeduzione.
La seconda, decisamente peggiore, è stata la propaganda martellante condita da insulti pesanti.
Già: nel disinteresse dei più (anche sacrosanto, visto che il Mezzogiorno ha problemi decisamente più seri di cui preoccuparsi che non le teorie di Lombroso) sono stati tre calabresi gli autori del controcanto alle tesi inconsistenti ma rumorose dell’ex sindaco di Motta e degli antilombrosiani 2.0: Maria Teresa Milicia, docente di Antropologia presso l’Università di Padova e autrice di un bel libro-verità su Lombroso e su tutto l’affaire Villella; Luca Addante, docente di Storia moderna dell’Università di Torino, autore di numerosi volumi sulla storia calabrese e, nella specifica vicenda, di un bell’articolo ospitato dal Corriere della Calabria dal quale è tuttavia sparita la firma (leggi qui), e, più modestamente, chi scrive, che si è visto coperto di insulti solo per aver scritto una recensione al libro della Milicia.
Dopo tutto questo bailamme, sarebbe stato lecito almeno aspettarsi la pubblicazione della notizia almeno in un trafiletto in fondo pagina o in una new online.
Niente di tutto questo: evidentemente, il dovere di cronaca lo si pratica solo nei confronti di chi pesa ed è vivo e la verità storica, a meno che non serva a eccitare complessi culturali spacciati per meridionalismo, non conta.
Pitaro conclude il suo sermone travestito da articolo con una chiosa inaccettabile:
«Affidare ad un organo di giustizia, quando si è in presenza di un Paese ebbro di sciocchezze, con la testa schiacciata nei canali informatici, finito nella morsa di uno stucchevole psicodramma politico che evidenzia, specie al Sud, l’assenza di quell’energia culturale e politica necessaria per ridare contenuti e idee a un meridionalismo intelligente, la vicenda Villella, non appendice marginale e irrilevante ma espressione organica sebbene sacrificata e mortificata dell’irrisolta questione meridionale, è stato un errore».
Al netto del periodare infelice, il capoufficio stampa del Consiglio regionale, ha perso un’altra occasione buona per tacere: la vicenda umana del povero Villella è irrilevante per qualsiasi meridionalismo intelligente e le balle spaziali propalate dai “no Lombroso” e sostenute in via giudiziaria anche dal piccolo Comune del Lametino, sono riuscite ad attecchire proprio perché hanno trovato terreno fertile nel malessere del Sud, nell’esplosione delle fake sui social e grazie alla crisi della stampa, che non solo non ha fatto da filtro ma si è addirittura messa a tifare.
Certo che adire l’autorità giudiziaria è stato un errore: cosa ci si aspetta quando si va in giudizio sostenendo sciocchezze?
E allora, perché insistere a sostenerle quando tutte le evidenze sono contrarie e suggerirebbero di lasciar perdere? I giapponesi nella giungla furono eroi tenaci: resistettero per anni solo perché non sapevano che la guerra era finita. In questo caso, visto che le cose si sanno, continuare non sarebbe eroico ma stupido.
Leggi anche:
Affaire Villella, fine ingloriosa di uno strano processo
9,469 total views, 2 views today
Comments