Cenerentola era napoletana. E per giunta assassina
I neoborbonici si appropriano della novella di Giambattista Basile e Pino Aprile le spara grosse su Panorama
Allora, Cenerentola è napoletana. E ci sta. Forse era pure un’assassina. E ci sta meno: Napoli e il sangue fanno poco Disney. E fanno ancor meno Perrault e Fratelli Grimm.
Però due cose sono certe.
La prima: in effetti un personaggio simile a Cenerentola appare in una fiaba di Giambattista Basile, La gatta Cenerentola.
Basile fu un celebre letterato e scrittore di Giugliano in Campania, vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento. La sua Cenerentola, che si chiama Zerzolla, è protagonista della sesta novella della prima giornata del Pentamerone, la celebre raccolta di fiabe in lingua napoletana pubblicata postuma col titolo Lu cuntu de li cunti.
Seconda cosa: Lu cuntu de li cunti, compilata secondo un modello che risale a Le Mille e una Notte e al Decamerone, risale al 1634, mentre la Cenerentola di Perrault è del 1697 e quella dei Fratelli Grimm al 1812.
Il primato napoletano, in effetti, ci sarebbe. Tanto più che Basile introduce qualche elemento thriller nella sua versione: Zerzolla viene indotta dalla sua maestra ad assassinare la matrigna cattiva e finisce nelle grinfie dell’insegnante, che si rivela peggiore dell’assassinata. Evidentemente, i ragazzini napoletani del XVII secolo erano meno impressionabili dei loro omologhi d’oltralpe e pretendevano di più.
Il resto è uguale: soprattutto il dettaglio della scarpetta smarrita che consente al Principe, che nel caso di Zerzolla è un re (da buona napoletana si sapeva fare i conti in tasca…), di ritrovare la gentile proprietaria.
L’ultimo a scoprire questa fiaba è stato il giornalista pugliese Pino Aprile, convertitosi alla causa sudista dopo aver diretto Gente e diventato famoso come autore di Terroni, il rumoroso vangelo del rivendicazionismo neoborbonico.
Aprile ha annunciato questa riscoperta con toni trionfali in un articolo pubblicato da Panorama lo scorso sei luglio.
Il Nostro, ovviamente, non si è limitato a rivendicare il primato fiabesco meridionale, perché, da buon rivendicazionista rivendica tutto. È arrivato ad accusare en passant Perrault di plagio. Leggere per credere: «Basile morì nel 1632, dopo più di mezzo secolo, nel 1692, Charles Perrault riscrisse Cenerentola e altre fiabe “di Perrault».
Ma il trattamento peggiore è riservato ai Grimm: «Se cercate su Wikipedia leggerete che “i due fratelli sono conosciuti per aver raccolto e rielaborato fiabe della tradizione popolare tedesca”, fra cui, Cenerentola “dei fratelli Grimm”. E la pulzella prende casa in Baviera: il castello di Neuschwanstein, usato per quella e altre fiabe dalla Disney e visitato finora da 60 milioni di persone».
Insomma, povero Basile. E meno male che è arrivato Aprile, sennò chissà che fine avrebbe fatto. Oltre che storiografo, il giornalista pugliese si è improvvisato filologo. Sempre per amor di cultura. Meridionale, s’intende. Infatti, nello stesso pezzo, il Nostro ha rilanciato una proposta di un suo compare di merende, Gennaro De Crescenzo, il leader del Movimento Neoborbonico. La trovata è la seguente: visto che con Cenerentola i tedeschi fanno business allo stesso modo in cui i veronesi lo fanno con Giulietta e Romeo e gli scandinavi con Babbo Natale, perché a Napoli non si può fare altrettanto?
Infatti, secondo De Crescenzo, e quindi secondo Aprile, la Zerzolla di Basile avrebbe perso la fatidica scarpetta sui gradini del Palazzo Reale di Napoli, che allora era però vicereale. Da qui la richiesta: «Il professor Gennaro De Crescenzo, cultore di storia napoletana, ha appena scritto alla dottoressa Antonella Cucciniello, direttrice di Palazzo Reale, chiedendo se non sia il caso di apporre sulla scalinata almeno una targhetta che indichi a turisti e passanti che la protagonista della fiaba più diffusa del mondo e di sempre scivolò di corsa su quei gradoni». La richiesta decrescenziana sarebbe avallata nientepopodimeno che dall’illustre Michele Rak, lui sì studioso di vaglia, di cui De Crescenzo è stato allievo.
La targhetta dovrebbe commemorare il luogo (vero) che ha ispirato l’invenzione letteraria di Basile.
Ma le cose stanno davvero così? Abbiamo spulciato anche noi Wikipedia, e non per diffamare Perrault e i Grimm, e, visto che c’eravamo, abbiamo riletto la fiaba di Basile.
Iniziamo da quest’ultima: non c’è nessun dettaglio che faccia capire che Zerzolla abbia perso sui gradini del Palazzo Reale, già visitatissimo da molti turisti, la celeberrima scarpetta. Infatti, scrive Basile: «Essa, vedenno che sempre l’era alle coste, disse: “Tocca cocchiero”, e ecco se mese la carrozza a correre de tutta furia e fu cossì granne la corseta che le cascaje no chianello; che non se poteva vedere la più pentata cosa».
Traduciamo alla meno peggio: «E lei, accortasi che (il servitore del re) le era sempre alle calcagna, disse: “Accelera, cocchiere”, ed ecco che la carrozza iniziò a correre precipitosamente e la corsa fu così precipitosa che lei perse una scarpetta; e che non si capiva più nulla». Secondo lo scrittore giuglianese, che non fa tra l’altro riferimenti espliciti al Palazzo Reale, Zerzolla avrebbe perso la scarpetta in seguito all’accelerazione della carrozza, già in moto, su cui viaggiava per sottrarsi all’inseguitore.
Da ciò si ricava che quella di De Crescenzo è una bufala e l’articolo di Pino Aprile lo sponsor a una bufala.
Veniamo a Wikipedia: siamo sicuri che la Zerzolla basiliana fosse proprio sconosciuta? Dall’enciclopedia online ricaviamo che nel 1976 il celebre regista e musicologo Roberto De Simone ne ricavò un musical, orchestrato dal maestro Domenico Virgili. Ricaviamo inoltre che questo musical è stato rappresentato 175 volte nei primi due anni dalla sua messa in scena. Non è poco e dimostra che non era proprio necessario l’intervento di De Crescenzo e Aprile per dare a Basile ciò che è di Basile.
Quanto alle accuse di plagio cadono da sé, non fosse altro perché è davvero difficile pensare che Perrault e i Grimm fossero in grado di leggere un racconto in napoletano antico. Semmai, nulla vieta di pensare che i motivi tipici della fiaba di Cenerentola fossero diffusi, grazie alla potenza della trasmissione orale, in più posti contemporaneamente con le relative varianti territoriali e che Basile li abbia messi su carta per primo.
D’altronde, c’è stato chi su questi motivi fiabeschi si è esercitato più che ampiamente: è il caso dell’antropologo russo Vladimir Propp, che negli anni’30 inventò lo schema fiabesco, o, più recentemente, di Furio Jesi e della sua macchina mitologica.
Lasciamo in pace i grandi, allora. Semmai, chiediamoci, perché i piccoli, cioè Aprile e De Crescenzo, non paghi di aver violentato la storia risorgimentale, si accaniscano ora sulle fiabe. Forse per mettere il cappello su qualche pezzetto di storia napoletana?
Ma l’interrogativo più pesante è un altro: come mai una rivista seria come Panorama ha pubblicato tutta la boutade senza nemmeno una verifica? Va bene che era luglio e che le notizie scarseggiano, anche sul fronte culturale. Però ciò non toglie che Panorama non è un quotidiano di provincia e che certi scivoloni se li potrebbe evitare.
Una battuta per concludere: nello stesso pezzo, senza paura di contraddirsi, Aprile ammette che sono esistite altre versioni di Cenerentola, tra cui quella egiziana secondo cui l’eroina era una cortigiana d’alto bordo che avrebbe, sotto mentite spoglie, fatto perdere la testa a un faraone.
Sarà di sicuro così. E magari Cenerentola sarà stata pure una lucciola, anzi una zoccola.
Però, in questo caso, la marchetta l’ha fatta Aprile.
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