Il processo farsa a Gesù. La tragedia di Pilato
Fu davvero il vigliacco bollato a tinte fosche dai padri della Chiesa, o non piuttosto un semplice funzionario stritolato da un meccanismo più grande di lui? Il prefetto romano della Palestina di Cristo resta in buona parte un enigma, non solo per gli storici. Non poteva, ovviamente, riconoscere la divinità di Cristo, ma ne capì l’innocenza e le provò tutte per scagionarlo dalle accuse dei sacerdoti del Sinedrio, gli integralisti religiosi di ieri, non meno pericolosi e interessati di quelli odierni.
Vigliaccheria? Voglia di scansare le responsabilità? Forse no. Tant’è che i copti lo considerano martire e per gli etiopi è un santo.
Necessità del destino o obbedienza inconsapevole al volere di Dio? Tuttora si dibatte sulle responsabilità, attribuite a Ponzio Pilato, di aver avallato quello che ancora è considerato un processo farsa, il processo farsa per eccellenza: il processo a Gesù.
Gli storici, a partire dagli evangelisti (con qualche discrepanza sulle date nel Vangelo secondo Giovanni) considerano quasi illegittimo il procedimento penale istituito dai sacerdoti del Sinedrio contro Yeshua bin Yosif [Gesù di Giuseppe, il nome storico di Cristo] e quindi ratificato dall’autorità imperiale romana per alcuni vizi di fondo, evidenti anche alla luce della legislazione ebraica dell’epoca.
I vizi sono formali: il processo fu celebrato di notte nel palazzo del sommo sacerdote Caifa, dopo un arresto eseguito non da pubblici ufficiali ma dai servi e dalle guardie dello stesso Caifa. Secondo le leggi rabbiniche, infatti, i processi celebrati di notte erano quantomeno irregolari e quelli celebrati in prossimità delle feste erano praticamente illegittimi.
In una società come quella israeliana dell’età imperiale, in cui le tradizioni religiose erano la legge, queste formalità erano considerate importantissime. Com’è stato possibile scavalcarle? Si potrebbe ipotizzare, al riguardo, l’eccezionalità e l’emergenza, visto che il messaggio di Gesù era in effetti considerato eversivo e che lo stesso Gesù era stato accolto a Gerusalemme da una folla festante, suggestionata soprattutto dai miracoli e infiammata dalla predicazione.
Una semplice questione di potere? Probabilmente sì, perché per il resto figure come Gesù, che aveva predicato nelle piazze e nei templi praticamente indisturbato, non erano infrequenti nella Palestina dell’epoca, piena di battisti, profeti e sapienti. D’altronde, per quanto criticato negli ambienti ortodossi, Gesù aveva un riconoscimento ufficiale: Giuda, il suo apostolo traditore lo chiama Rabbi e a più riprese, nella narrazione degli evangelisti, viene definito Maestro.
Il pericolo reale della predicazione cristiana stava nella sua universalità, che rompeva con la tradizione particolaristica ebraica, che era essenzialmente una religione di stirpe.
Il delitto di bestemmia, per il quale le leggi di Mosè prevedevano la pena capitale, c’era tutto, stando alla visione rabbinica: proclamarsi Figlio di Dio e Re dei Giudei era non solo sacrilego in quella visione religiosa molto ligia alle forme e incapace di interpretare, ma anche eversivo, perché rompeva con una tradizione in cui la dignità regale era diretta conseguenza di una discendenza e del favore di Dio.
Siamo quindi ben lontani dalle raffinate elaborazioni, filosofiche e persino esoteriche, che l’ebraismo della diaspora avrebbe prodotto nei secoli successivi. All’epoca la Palestina era una patata bollente, non solo per i romani: una terra sostanzialmente povera incastonata tra aree ricchissime, di cultura in prevalenza greca (la Siria e la Giordania) o fenicia (il Libano) e scossa da lotte intestine e fremiti nazionalisti.
Per qualsiasi funzionario romano finire lì era una condanna vera e propria.
Anche per Pilato, che tuttavia aveva qualche familiarità con la cultura giudaica e, pare, conoscesse l’aramaico, che avrebbe appreso a Bisenti, dove aveva trascorso la giovinezza e in cui c’erano interi nuclei familiari di origine mediorientale.
Questa specie di Viet Nam (o di Afghanistan, se si preferisce) dell’antichità aveva una sistemazione giuridica quantomeno strana: al collegio sacerdotale del Sinedrio, che era un organo di autogoverno (non solo) religioso, si sovrapponeva l’autorità militare e amministrativa, il re Erode Antipa, che tuttavia non era riconosciuto da una larga fetta della popolazione perché era un arabo.
Erode, tuttavia, era il tramite dell’autorità imperiale, rappresentata dal prefetto. Cioè da Pilato.
Il prefetto sorvegliava essenzialmente l’ordine pubblico e interveniva quando, come capitava spesso, l’autorità di Erode non era sufficiente, perché tutto il meccanismo si reggeva di fatto sulla forza della temutissima X Legio, allora di stanza in Palestina. Inoltre, Pilato garantiva l’applicazione del diritto romano nei processi tra gli ebrei e i romani oppure negli affari in cui era necessaria comunque l’applicazione del diritto romano. Il superpotere vero in mano al prefetto era lo jus gladii, la pena di morte, che era il vero attributo della sovranità in tutte le aree dell’Impero.
Detto semplicemente: tutte le autorità locali potevano mettere a morte chiunque secondo le proprie leggi, ma chi aveva l’ultima parola era comunque il prefetto, a cui spettava sia la facoltà di graziare, sia quella di rigettare la pena, dopo averla ritenuta infondata.
Tutto questo dovrebbe dare un’idea delle difficoltà con cui ebbe a che fare Pilato, costretto a giudicare su una questione religiosa, in quanto tale non di sua competenza, all’interno di un vero e proprio ginepraio politico. Fu un debole? Probabilmente no. Era solo un romano del I secolo.
Torniamo al processo nel Sinedrio. Si è già detto dei suoi gravi vizi di forma, sui quali gli evangelisti, che si limitano alla nuda cronaca, sorvolano del tutto, anche perché le loro preoccupazioni non sono di natura giudiziaria. Probabilmente il Sinedrio ha sanato il vizio di forma con un atto di autorità ispirato all’emergenza: si temeva che la predicazione di Cristo avrebbe potuto scatenare una rivolta non negoziabile con l’autorità romana. Detto altrimenti: Gesù non era un nazionalista – magari da utilizzare e poi scaricare senza troppi complimenti – come Barabba. Era un predicatore che partiva dalla Tradizione e la superava in senso universalista. Un profeta sui generis che annunciava la fine del Regno di Israele e, quindi, del primato del popolo ebraico.
Più che l’Impero («Date a Cesare quel che è di Cesare»), Gesù minacciava l’autorità del Sinedrio.
Pilato, in questo contesto, era un laico. Anzi, non poteva che essere laico, poiché esercitava l’autorità in nome di un Impero multietnico dotato di forti autonomie.
Ed ecco perché il prefetto le provò tutte pur di non mettere Gesù a morte: non solo riteneva la sua predicazione incolpevole, ma di primo acchito non contraria alle leggi romane.
Ovviamente non c’era solo l’aspetto giudiziario, ma nell’atteggiamento del prefetto pesavano anche valutazioni politiche ben precise: limitarsi a ratificare la decisione del Sinedrio avrebbe comportato un riconoscimento eccessivo dell’autorità religiosa, che non era accettata pacificamente da tutta la popolazione.
Tuttavia, il cavillo per inchiodare Cristo uscì fuori, a prescindere dalle false testimonianze additate dagli evangelisti: la lesa maestà. Proclamandosi Re dei Giudei, Gesù disconosceva di fatto l’autorità imperiale. Non a caso, la targa che vediamo ancor oggi su tutti i crocifissi, indica il capo di imputazione: Iesus Nazarenus Rex Judaeorum.
L’ultimo escamotage che restava a Pilato era il referendum. La vittoria di Barabba vanificò i tentativi del prefetto, che aveva restituito l’autorità al popolo per scavalcare le insistenze del Sinedrio.
Al riguardo, il grande giurista austriaco Hans Kelsen ha scritto nel 1933 una pagina bellissima sul processo a Gesù.
Kelsen, che anticipava in parte le riflessioni di Karl Popper, identificava il liberalismo con il relativismo etico. Perciò secondo lui la democrazia è essenzialmente pluralismo, cioè l’eguale diritto di espressione per tutte le idee e opinioni. Siamo ben lontani dalla questione della Verità, per cui i sacerdoti del Sinedrio volevano la morte di Gesù.
Pilato, nella lettura kelseniana riflette l’attitudine liberale, proprio perché non reputa importante il problema della Verità. Per questo, il prefetto chiede a Gesù: «Cosa è la verità?». Già: l’Impero tollerava tutte le credenze, al contrario, nella visione rabbinica (e non solo), la Verità di una convinzione, se si vuole di una fede, esclude tutte le altre.
Stupenda la conclusione di Kelsen, che compatisce Pilato allo stesso modo di Bulgakov ne Il Maestro e Margherita: «Per i credenti, per coloro che hanno una fede politica, questo plebiscito è senza dubbio un argomento poderoso contro la democrazia. E questo argomento bisogna farlo valere. Ad una sola condizione, però: che coloro che hanno una fede politica siano così sicuri della propria fede politica – eventualmente da imporre con metodi cruenti – come lo era il figlio di Dio».
La democrazia odierna, per fortuna, non è più il sistema dell’Impero. Ma una riflessione sorge spontanea: se oggi Cristo tornasse, magari in qualche parte martoriata da uno dei tanti integralismi, di sicuro troverebbe chi fosse disposto a farlo fuori senza troppi complimenti. Ma, ecco il punto: troverebbe anche un Pilato che lo riconosca innocente? E questo Pilato, stavolta, sarebbe in grado di dire no alle pretese dei tanti, troppi Sinedri di oggi che attentano in continuazione non solo alle libertà, ma alla Verità stessa?
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