Dalle foibe a Gladio. Come nacque l’anticomunismo in Italia
Parla Giacomo Pacini, storico delle organizzazioni paramilitari segrete: i “gladiatori” furono patrioti, altro che spie eversive. Il “pericolo rosso” c’era davvero
Nazionalisti? «Sicuramente, ma, non sembri un paradosso, erano per certi versi più nazionalisti gli jugoslavi, partigiani prima e militari subito dopo, a cui si contrapponevano». Possiamo definirli patrioti? «Certamente. Perché nella brigata partigiana Osoppo, c’era di tutto: cattolici (la maggioranza) giellini, repubblicani, laici. E avevano in comune due dati: la provenienza dall’Esercito, quindi una certa preparazione militare, e l’antifascismo».
Parla Giacomo Pacini. Toscano doc, storico e saggista, Pacini è uno studioso esperto di servizi segreti e organizzazioni paramilitari, a cui ha dedicato alcuni importanti volumi, tra cui Le organizzazioni paramilitari nell’Italia repubblicana (Prospettiva Editori, Roma 2008) e Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia. 1943-1991 (Einaudi, Torino 2014).
L’argomento della conversazione che segue è la nascita di Gladio, il più importante (e l’unico davvero conosciuto) organismo Stay Behind in Italia. Una nascita avvenuta nel cuore della Resistenza nel momento più tragico della fine della Seconda guerra mondiale: l’invasione jugoslava dei confini orientali, col contorno di stragi di civili che ne conseguì.
Al punto che oggi, dopo anni di rimozioni, c’è chi parla di pulizia etnica a danno degli italiani.
Gladio, com’è noto anche grazie alle ricerche di Pacini, nacque dalla brigata Osoppo. Poi, come conseguenza della politica jugoslava, soprattutto della sua influenza sul Pci (e quindi sulla brigata comunista Garibaldi), iniziò a diventare altro. Cioè una struttura segreta armata, anche a causa delle violenze subite dagli italiani.
È corretto parlare di pulizia etnica?
Io non mi impegnerei a dare una risposta a un tema storiografico ancora troppo dibattuto. Tuttavia si può affermare una cosa: la resistenza jugoslava rispetto alla resistenza comunista italiana era più incline a saldare l’aspetto etnico nazionale con quello marxista rivoluzionario. In parole povere, di sicuro gli jugoslavi erano più nazionalisti dei comunisti italiani e perseguivano una politica annessionista.
Quindi l’antifascismo funzionò anche da copertura per operazioni di pulizia etnica?
Sì, ma nella misura in cui è legittimo parlare di pulizia etnica alla luce dei risultati della storiografia recente. I partigiani titini colpirono molti italiani che non erano stati fascisti né avevano avuto particolari legami politici. Ma l’aspetto ideologico dell’antifascismo, che ,
fu un collante tra la resistenza slava e parte di quella italiana, ebbe un suo peso autonomo. A ciò si deve aggiungere anche il ruolo forte di Mosca, che fino a un certo punto, cioè fino alla rottura tra Stalin e Tito, teneva le redini del discorso. L’analisi da fare è più complessa. Al netto di tutto, resta comunque un dato incontrovertibile: per gli jugoslavi la resistenza e la lotta antifascista furono anche occasioni per risolvere a loro favore frizioni etniche plurisecolari.
Non solo nei confronti degli italiani.
Certo, anche i croati e gli sloveni filofascisti o legati a progetti politici non jugoslavisti ebbero ripercussioni pesanti. Il panslavismo fu anche un processo di nazionalizzazione violenta.
Torniamo alla vicenda di Gladio e della brigata Osoppo e dei rapporti di quest’ultima con la brigata Garibaldi.
Gli osovani, così si chiamavano i militanti della Osoppo, erano in prevalenza cattolici, tuttavia fino a un certo punto collaborarono con i garibaldini.
Poi il legame si spezzò.
La diffidenza tra cattolici e comunisti c’era anche prima, ma la rottura iniziò a delinearsi a partire dall’ottobre 1944, in seguito all’incontro tra Palmiro Togliatti e Milovan Gilas, durante il quale Togliatti diede il via libera alla collaborazione tra i garibaldini e i partigiani del IX Korpus sloveno.
Una collaborazione che, in realtà, era una vera e propria subordinazione. In pratica, i comunisti fecero da quinta colonna.
In quella fase storica fu così, purtroppo. Ma val la pena di ricostruirne in sintesi i passaggi salienti. Tutto inizia da una lettera inviata nel settembre 1943 da Edvard Kardelj a Vincenzo Bianco, delegato da Togliatti presso il Fronte di liberazione sloveno. In questa missiva Kardelj ordina la subordinazione della brigata Garibaldi al IX Korpus. Ancora oggi fa una certa impressione un passaggio piuttosto esplicito di questa lettera, in cui l’esponente titino afferma: «Difficilmente comprendo perché alcuni di voi insistano sul tema dell’italianità».
I vertici del Pci come la accolsero?
Rimasero perplessi: Longo e perfino Secchia, ad esempio, temevano che questa disposizione di tipo militare ma sostanzialmente politica avrebbe creato spaccature all’interno della Resistenza. Come di fatto avvenne. Alla lettera seguì l’incontro, a Bari, nella notte tra il 16 e il 17 ottobre 1944 tra Togliatti e Gilas, a cui partecipò Kardelj. Quest’ultimo redasse il verbale della riunione, in cui affermava che il segretario del Pci non aveva messo in discussione «che Trieste spetti alla Jugoslavia».
Forse perché, visto che l’iniziativa jugoslava aveva la benedizione di Mosca, non c’erano troppe alternative.
Anche questo, certo. Va detto che non siamo in possesso della versione di questi colloqui di Togliatti anche se è nota una ulteriore lettera che egli inviò a Bianco il 18 ottobre in cui definiva positivo l’accordo con gli jugoslavi e sosteneva che il Partito Comunista doveva partecipare attivamente «alla organizzazione di un potere popolare in tutte le regioni liberate dalle truppe di Tito».
Insomma, Togliatti cedette su tutta la linea. Ma era davvero d’accordo?
A livello tattico sì. A livello strategico, invece, anche lui temeva che l’occupazione slava avrebbe alienato molti consensi ai comunisti.
Comunque i dissidi tra osovani e garibaldini iniziano proprio in seguito al via libera di Togliatti.
Inevitabilmente. La scelta della Garibaldi di porsi alle dipendenze del IX Corpus costituì uno snodo cruciale nella storia della Resistenza nel Nord-Est e sarebbe stata foriera di pesanti conseguenze per il futuro della regione.
Può farsi risalire a questa fase l’idea primigenia che avrebbe poi portato alla creazione di Gladio?
Diciamo che fu in quel momento che tra gli osovani cominciò a radicarsi la convinzione che la propria missione non si sarebbe esaurita con la sconfitta del fascismo e che, anche a guerra finita, si doveva restare armati contro un nuovo nemico: il comunismo.
Anche perché l’accordo Togliatti-Gilas non fu l’unico trauma.
Infatti: il 7 febbraio 1945 ci fu l’eccidio di Porzus, in cui 17 osovani furono passati brutalmente per le armi dai garibaldini. A quel punto il dissidio divenne ostilità aperta; nella memoria collettiva degli osovani la strage di Porzus (partigiani che uccido altri partigiani) divenne un qualcosa di indelebile e, insieme ai successivi quaranta giorni di occupazione slava di Trieste, costituì un momento chiave nel processo che portò alla decisione di creare il complesso delle strutture anticomuniste di tipo Stay Behind.
Al punto che gli osovani, in nome dell’italianità, tentarono di accordarsi con i marò del principe Borghese?
Si può oggi affermare con ragionevole certezza che ci fu più di un contatto. Per esempio; se il pretesto per la strage di Porzus fu un presunto incontro tra il capo osovano Bolla e uomini di Borghese in realtà mai avvenuto, è vero che di una possibile collaborazione tra osovani e marò della Decima si era discusso fin dal gennaio 1945 in un incontro riservato svoltosi a Vittorio Veneto fra il capitano Manlio Morelli della stessa X-mas e il comandante osovano Verdi (Candido Grassi). Quel progetto rimase però lettera morta. Un estremo e documentato tentativo di accordo tra Osoppo e X-mas vi fu a fine febbraio 1945 con la mediazione di Antonio Marceglia, già capitano di vascello della marina militare e noto per essere stato tra gli affondatori delle corazzate inglesi Queen Elizabeth e Valiant. Marceglia (detto in estrema sintesi) fu inviato nei territori del nord su disposizione del controspionaggio americano per preservare gli impianti del triangolo industriale dai tedeschi in ritirata e per cercare di operare al fine di favorire proprio un’intesa fra reparti dell’esercito di Salò in disfacimento, uomini della Decima e, appunto, le brigate Osoppo. L’obiettivo era creare una sorta di fronte italiano che avrebbe dovuto combattere in funzione sia antinazista, sia anticomunista e difendere l’italianità della regione da qualunque forza straniera. Ma fu tutto inutile, perché in una relazione che scrisse a fine febbraio, Marceglia sostenne che la Xmas era ormai troppo malridotta, soffriva di una eccessiva dispersione nel territorio e comunque molti dei suoi uomini non avrebbero accettato di collaborare con una formazione partigiana, seppur anticomunista. Cosa che, almeno stando ai documenti di cui disponiamo, Borghese avrebbe invece avallato.
Il peggio sarebbe arrivato con la fine della guerra.
Fu il terzo trauma. Il primo maggio 1945 gli jugoslavi entrarono a Trieste e, come noto, vi rimasero per 40 giorni. Furono giorni terribili per i triestini, molti dei quali subirono le stesse violenze capitate agli istriani e agli abitanti della parte orientale della Carnia. In quell’occasione, c’è da dire, iniziò a maturare anche la rottura all’interno del Pci tra i fedeli alla linea jugoslava e quelli che, al contrario, presero posizione a favore dell’italianità.
I titini miravano all’annessione di Trieste.
Miravano certamente ad annettere più territorio italiano possibile. Anche questa fretta di giungere a una conclusione spiega le violenze nei riguardi della popolazione. In ogni caso, l’occupazione jugoslava fu uno shock profondissimo per molti triestini e fece definitivamente maturare, negli osovani, l’idea di proseguire la propria attività antislava anche dopo la guerra. Infatti, a partire dal ’46, la Osoppo rinacque come struttura segreta, sotto il comando del colonnello Luigi Olivieri.
Ma anche nel campo comunista si verificò una cosa simile.
Sì, nella storia degli organismi segreti anti-titini operanti nel Nord-Est fino ai primi anni cinquanta, vi è anche il particolare caso di gruppi armati facenti capo al rappresentante dell’ala filo-sovietica del Partito Comunista del Tlt, Vittorio Vidali, uno stalinista fedele a Mosca, già combattente nella guerra civile spagnola. Questi gruppi si tenevano in contatto coi servizi segreti militari italiani e si dichiaravano pronti a prendere la difesa dell’Italia in caso di un’altra invasione jugoslava. È una storia, questa, per certi versi ancora tutta da scrivere.
Un trauma anche per loro.
Indubbiamente. A dare ancora più solidità a questa sorta di patto segreto anti-slavo arrivò poi la nota risoluzione del Cominform del 28 giugno 1948 che sancì lo strappo fra Stalin e Tito. La spaccatura in seno ai comunisti della regione divenne a quel punto insanabile con l’ala filoslava capeggiata da Babic che uscì dal partito e fondò il cosiddetto Fronte Popolare italo-slavo. In seguito a ciò, nella Zona B sotto controllo slavo, i titini diedero inizio a una dura persecuzione verso quei comunisti istriani schieratisi su posizioni cominformiste o che avevano dimostrato sentimenti italiani. Diego De Castro (nel dopoguerra rappresentante diplomatico italiano presso il Governo Militare Alleato) ha raccontato che in quei mesi, in alcuni incontri riservati che ebbe con Vidali, questi promise che non avrebbe esitato a mettere a disposizione uomini armati qualora fosse stato necessario fermare le mire titine.
Ma a questo punto la Osoppo era già una struttura segreta consolidata di cui la Democrazia cristiana e alcuni settori militari conoscevano l’esistenza.
E nel 1956 divenne Gladio. Ricordo che allora era ministro della Difesa l’ex partigiano Paolo Emilio Taviani.
Ma quale peso effettivo ha avuto Gladio nella storia repubblicana?
Fu essenzialmente un deterrente. Questa struttura, inserita nel progetto Stay Behind della Nato, non fu mai operativa, perché per fortuna non ce ne fu mai bisogno. Certo, i membri di Gladio si addestravano per tenersi pronti, ma l’unico episodio bellico oggi conosciuto avvenne proprio lungo il fronte orientale e prima della nascita di Gladio. Fu un breve scontro armato coi soldati jugoslavi a Topolo, un piccolo villaggio di confine, subito dopo le elezioni del ’48.
Nel 1990 Andreotti rivelò l’esistenza di Gladio e fornì una lista parziale dei suoi componenti.
Ci si interroga ancora oggi sui motivi per cui Giulio Andreotti fece quella rivelazione e soprattutto con quelle modalità. Fu un caso unico in tutto l’Occidente. È parere ormai unanime che egli volesse tentare la corsa al Quirinale e, per farlo, cercò, anche attraverso la rivelazione di Gladio, di ingraziarsi il Pci, ma è anche vero che dando in pasto all’opinione pubblica Gladio consentì di tenere nascoste altre strutture, diverse e distinte da Gladio e che verosimilmente potrebbero aver avuto un ruolo in alcune vicende oscure della storia d’Italia.
Però a Gladio fu attribuito di tutto. Soprattutto gli si attribuì un ruolo determinante negli episodi più oscuri della strategia della tensione.
A quasi trent’anni dalla rivelazione di Gladio, c’è un dato ormai certo: non è spuntata una prova di un suo coinvolgimento in attività eversive. Gladio, che fu composta essenzialmente da partigiani antifascisti, fu una struttura segreta a orientamento anticomunista. E questo anticomunismo si coagulò nel confine orientale d’Italia attorno alla paura del pericolo jugoslavo, una paura che continuò a lungo, soprattutto a Trieste.
(a cura di Saverio Paletta)
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