«Ecco perché a Pontelandolfo fu tutta un’altra storia»
Parla Giancristiano Desiderio, autore di un libro verità che smantella la propaganda neoborbonica sulle terribili vicende del Sannio subito dopo l’Unità d’Italia: il paese non fu raso al suolo né ci fu lo sterminio. Anzi, alcuni dei morti furono vittime di vendette private. Gli unici veri martiri furono i soldati caduti nell’imboscata dei briganti…
Di solito uno storico non è quasi abituato ai clamori mediatici. Un giornalista, invece, lo è decisamente di più.
Il caso di Giancristiano Desiderio, nato a Pompei e residente in pratica da sempre a Sant’Agata dei Goti in provi☺ncia di Benevento, è a dir poco particolare: grazie a una ricostruzione rigorosa delle vicende di Pontelandolfo e Casalduni, contenuta nel suo Pontelandolfo 1861. Tutta un’altra storia (Rubbettino, Soveria Mannelli 2019), lo scrittore campano si è trovato catapultato nel mezzo delle polemiche furiose innescate dai revisionisti antirisorgimentali e dai gruppi neoborbonici che li sostengono.
Il Desiderio studioso, autore in tale veste di una bibliografia corposa, ha affrontato il tutto con molta serenità e piglio deciso. Il Desiderio giornalista, già redattore di testate importanti e attualmente firma de Il Giornale, de Il Corriere del Mezzogiorno e de Il Corriere della Sera, non ha battuto ciglio: quasi quasi se l’aspettava, come prova il fatto che le polemiche sono iniziate sotto Natale, quando il libro era ancora sulle rotative.
Sarà stata la potenza dell’adagio «male purché se ne parli» o la forza dirompente degli argomenti, è certa una cosa: il volumetto dedicato da Desiderio alla presunta strage compiuta dai bersaglieri nel 1861, sta andando forte, tant’è che gli esponenti neoborbonici (Gennaro De Crescenzo) e i revisionisti (Gigi Di Fiore) hanno cessato le polemiche.
Come a dire: se non lo si può confutare meglio ignorarlo. Oppure, più semplicemente, le presentazioni dei propri libri e le proprie iniziative sono più importanti dei dibattiti da cui difficilmente si potrebbe uscire vincenti.
Al riguardo, Desiderio, è piuttosto rilassato: «Io ho scritto un saggio storico in cui ho tentato, credo riuscendoci, di ristabilire la verità dei fatti. Ho scritto questo libro pensando al pubblico dei lettori, da troppo tempo sottoposto alla mistificazione di fatti storici importanti. Questo libro ha a tratti l’andamento di un pamphlet, ma, ripeto, è un saggio che parla di un episodio storico con metodo storico, non un libello di propaganda o di polemica politica».
Come sta andando il libro?
Direi molto bene: le vendite sono state ottime e gli stock sono prossimi all’esaurimento tant’è che stiamo iniziando a pensare a una ristampa, anzi a una seconda edizione che conterrà alcune parti aggiuntive, su altri importanti fatti che rafforzano la tesi.
Per riassumere, nel tuo saggio smonti del tutto la tesi secondo cui a Pontelandolfo i bersaglieri inviati da Cialdini fecero una strage. E non solo: smentisci in maniera convincente l’altra tesi, secondo cui i bersaglieri si recarono nel paese del Beneventano col preciso mandato di massacrare gli abitanti per rappresaglia. Quali sarebbero i fatti nuovi?
In realtà non sono nuovi. Il primo fatto, riportato tra l’altro da Ugo Simeone nel suo Il Brigantaggio nel Beneventano dopo l’Unità d’Italia, riguarda il comportamento dei soldati della Guardia Nazionale, guidati da Giuseppe De Marco. I militi entrarono per primi in paese per evacuarne la popolazione, segno che i vertici dell’Esercito non volevano lo sterminio (che tra l’altro sarebbe stato controproducente a livello politico), ma semplicemente tagliare una base logistica agli insorti e ai briganti.
Il secondo fatto riguarda i morti civili verificatisi in quella terribile mattina del 14 agosto 1861. Sappiamo che i morti furono tredici e non le centinaia vagheggiate da una certa letteratura. Sappiamo inoltre che alcuni di questi perirono per via dell’incendio e non perché passati per le armi. La vera novità riguarda i morti attribuiti dalle fonti direttamente ai soldati: almeno quattro di questi morti sarebbero da attribuire a Simone Rinaldi Piscitella, definito dalle fonti dell’epoca un personaggio ambiguo, che covava rancori nei confronti dei compaesani. Rifugiatosi a Benevento il 7 agosto 1861, in seguito all’ingresso in paese dei briganti di Cosimo Giordano, tornò a Pontelandolfo quella terribile mattina del 14 agosto, come guida per le truppe. Proprio lui avrebbe indicato ai soldati i due figli di don Nicola Rinaldi e avrebbe ucciso di persona altri due compaesani, con cui aveva dei forti dissapori. Rinaldi Piscitella sarebbe stato ucciso dai briganti circa due mesi dopo. Ma in questo caso il suo comportamento è indice di un fatto difficilmente controvertibile: nella tragedi di Pontelandolfo influirono in maniera determinante anche dei brutti regolamenti di conti tra privati.
Il tutto o quasi riportato in fonti già edite. Ma allora, come mai questa lacuna su Pontelandolfo, da cui non sono stati immuni storici di una certa levatura come ad esempio Franco Molfese?
Potrei liquidare tutto con una citazione del grande Longanesi, che diceva che in Italia non c’è nulla di più inedito dei fatti editi. In realtà questa lacuna è dovuta a due fattori.
Innanzitutto è vero che c’è una grande tradizione sannitica di storia locale, che ha sviscerato i dettagli di questa vicenda. Ma è altrettanto vero che questa produzione è rimasta fuori dai circuiti accademici e quindi non è entrata in ricerche di più ampia portate. In seconda battuta, ha pesato anche il fatto che questa tradizione si è limitata a produrre una serie di saggi su singoli episodi e non ha mai generato un testo organico e completo relativo a tutte le vicende del brigantaggio nella zona. Con l’andare del tempo si è persa la memoria di questa produzione ed è cambiato il modello interpretativo.
Quando inizia questo processo?
Per Pontelandolfo inizia nei primi anni ’70, quando in seguito all’iniziativa del sindaco Perugini di dedicare una targa ai diciassette morti civili (i quattro uccisi dei briganti e i tredici del 14 agosto), intervenne lo scrittore Carlo Alianello, che riproponeva la lettura di quei fatti operata a suo tempo da Giacinto de’ Sivo, uno storico borbonico.
Come mai ti sei dedicato a questo argomento?
Quasi per caso: in occasione del centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, il sindaco di Pontelandolfo (che, tengo a precisare, non simpatizzava per i neoborbonici e non ne accolse le richieste) mi chiese un contributo. Io scrissi un articolo. Solo dopo seppi, grazie a dei conoscenti che mi indicarono le fonti, la realtà storica delle vicende di Pontelandolfo e a quel punto iniziai le mie ricerche.
Un dato che colpisce nel tuo libro è la critica all’impostazione gramsciana, che definisci «storiografia di partito». Quest’impostazione è curiosamente visibile nella produzione dei revisionisti, anche quelli più palesemente reazionari. Possibile che, a comunismo finito, si utilizzi un criterio storiografico basato sulla lotta di classe?
È un problema tutto italiano: la ricerca di un capro espiatorio, di un altro a cui addossare le responsabilità dei nostri problemi. La lettura gramsciana, finalizzata alla lotta politica immediata dell’epoca, resta funzionale a questo schema. E nel caso di Pontelandolfo è palese come, in seguito alla ripresa del dibattito, in molti si siano preoccupati più di confermare questo modello, magari cercando di alzare al massimo il numero dei morti, anziché interrogare i documenti per ricavarne dati concreti.
Che è poi quel che hai fatto tu.
E che non hanno fatto invece gli autori delle cosiddette controstorie. La storia è fatta di due elementi: i documenti, senza i quali è impossibile ricostruire i fatti ma che senza interpretazioni restano muti, e la narrazione, che è la capacità di mettere ordine in maniera convincente a questi documenti. Ora, questi due elementi latitano nelle controstorie, di solito perché uno dei due prevale sin troppo sull’altro o, peggio, manca del tutto.
Eppure è curioso che un fatto di storia locale continui ad appassionare così tanto.
Perché Pontelandolfo non è un fatto di storia locale. È una tragedia che fa parte a pieno titolo della grande storia. Ne fa parte perché proprio nel Sannio i comitati borbonici e i loro fiancheggiatori volevano creare una nuova Vandea. E ne fa parte perché proprio in queste stesse zone l’Esercito fu messo a durissima prova per stabilire in maniera inequivocabile la sovranità del nuovo Stato. Perciò è una vicenda delicata, nodale, in cui la storia locale confluisce nella storia universale. E poi, consentimi: tutti i fatti storici sono locali perché avvengono in un luogo. Ciò che cambia è il modo in cui si inseriscono in dinamiche di più ampia portata. Nel ricostruire queste vicende, io ho semplicemente sostituito il cosiddetto modello de’ Sivo, passato indenne da Gramsci e Alianello e arrivato ai revisionisti, con il modello Simeone, molto più credibile e serio a livello storiografico.
Magari anche per questo motivo il caso Pontelandolfo è diventato il simbolo dei malumori contro il Risorgimento.
Certo, perché in questo dramma, che si verifica nel momento in cui il Paese – tutto il Paese – si incammina verso la modernizzazione, ci sono gli elementi su cui imbastire la polemica: c’è don Epifanio, l’arciprete reazionario, ci sono i soldati, venuti da tutta Italia (e non solo dal Piemonte) per riportare l’ordine, c’è il sindaco liberale, costretto alla fuga, c’è il brigante Cosimo Giordano, un personaggio di enorme ambiguità, e ci sono i contadini sobillati dall’arciprete. Pontelandolfo nel 1861 è una sintesi delle tensioni del Sud di fronte al nuovo. È logico, in questo contesto e da queste premesse, che la creazione di una leggenda storica, relativa a un presunto massacro, fosse funzionale alla polemica politica.
Com’è stato accolto il libro a Pontelandolfo?
Non è stato accolto: l’ho finora presentato dappertutto, anche a Cerreto Sannita e a Morcone, che distano pochi chilometri da Pontelandolfo. Si era parlato di presentarlo anche lì. Ma poi non è stato preso nessun contatto. Non per volontà mia, ovviamente.
Ma questa favola nera ha una morale?
Sì. E non è una morale bellissima: le uniche vittime che non sono state celebrate sono i militari caduti nell’imboscata dell’11 agosto 1861. Loro sì, uccisi con ferocia e a sangue freddo. Sarebbe il minimo che le istituzioni, dopo tante falsità, dedicassero loro un monumento, magari tra Pontelandolfo e Casalduni. Non erano neppure piemontesi, come martella certa propaganda neoborbonica: venivano da tutte le parti d’Italia e sono morti nel Sannio proprio in nome dell’Italia appena nata.
(a cura di Saverio Paletta)
Per saperne di più:
La recensione al libro di Giancristiano Desiderio
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