Caso Lombroso, il cranio di Villella resta a Torino
La Corte d’Appello di Catanzaro respinge le pretese del Comune di Motta Santa Lucia e del Comitato “no Lombroso”, che perdono un processo nato da una bufala mediatica
Tanto tuonò che piovve, sarebbe il caso di dire. Ma con una specificazione: stavolta è piovuto su chi ha tanto tuonato: la Corte d’appello di Catanzaro ha dato ragione al Museo Lombroso di Torino e il cranio di Giuseppe Villella, il presunto brigante di Motta Santa Lucia, resterà lì, a dispetto della lunga battaglia, mediatica, politica e legale del Comitato tecnico scientifico “no Lombroso”, nato per contrastare il Museo dedicato al padre della moderna criminologia.
La vicenda, iniziata come una rivendicazione folcloristica, è piuttosto nota, anche grazie alla grancassa fornita dal web e dai giornali, soprattutto meridionali, che hanno agito in maniera piuttosto acritica.
Il Comune di Motta Santa Lucia, un paese di meno di mille anime in provincia di Catanzaro (più precisamente, nel comprensorio di Lamezia Terme), aveva intentato
nel 2012 una causa contro il Museo Lombroso per ottenere la restituzione del cranio di Giuseppe Villella, un pastore calabrese morto in carcere a Pavia nel 1864, dov’era detenuto per reati comuni (l’incendio di un mulino più furto aggravato). Proprio dallo studio del cranio di Villella, su cui c’era una vistosa anomalia (la fossetta occipitale mediana) Cesare Lombroso ricavò nel 1871 l’intuizione scientifica da cui sarebbe derivata la teoria del delinquente nato, che diede una forte notorietà allo studioso veronese.
Un equivoco della storia, in cui cascò a suo tempo lo stesso Lombroso, è stato alla base di questo bizzarro processo: per lungo tempo si credette che Villella fosse un brigante, come tale perseguitato e arrestato durante la repressione del brigantaggio e in piena vigenza della legge Pica. Proprio sulla base di questa errata cognizione si è mosso il Comitato “No Lombroso”, presieduto da Domenico Iannantuoni, un ingegnere milanese di origini pugliesi. Al Comitato, di estrazione e ispirazione neoborbonica, ha aderito Amedeo Colacino, sindaco di Motta Santa Lucia e avvocato presso il Tribunale di Lamezia.
Il processo, in cui il Comitato si costituì a fianco del Comune di Motta, partì col botto: il giudice lametino Gustavo Danise, diede ragione a Motta e ordinò la restituzione del teschio con un’ordinanza subito impugnata dal Museo Lombroso e dall’Università di Torino.
I giudici della Corte d’appello hanno azzerato l’ordinanza di Danise e rigettato tutte le pretese del piccolo comune del Catanzarese dopo un dibattimento non privo di colpi di scena. Infatti, lo scorso settembre è intervenuto nel processo anche Pietro Esposito, un discendente diretto di Villella, difeso dall’avvocata Letizia Di Valeriano.
La sentenza, prevista per l’inizio di febbraio, è stata depositata nelle ultime ore. Quindi la notizia è freschissima. Parrebbe, da una scorsa superficiale alle carte, che i magistrati catanzaresi siano entrati nel merito e abbiano respinto le pretese del paesino catanzarese e del Comitato.
E ciò prova una cosa: la scienza non è democratica ma materia per esperti. E questo vanifica il sostegno, dato da sindaci, soprattutto meridionali, e istituzioni di vario tipo al Comitato. Resta ingiustificato, nella stessa ottica, il sostegno acritico fornito dai media, meridionali e non solo, a questa causa bizzarra, costruita su un falso storico e su una montatura giornalistica, partita dalla Gazzetta del Mezzogiorno.
Si pensi che a difendere il Museo sono stati tre calabresi: Maria Teresa Milicia, antropologa e ricercatrice presso l’Università di Padova, Luca Addante, docente di Storia presso l’Università di Torino, e un giornalista.
I tre sono stati ricoperti di improperi dai militanti del sedicente Comitato.
Ma ora che la verità processuale, dopo quella storica, ha sconfessato i desideri, ideologici e politici, dei tanti che si sono impegnati in quest’opera di paradossale revisionismo, resta una domanda: davvero qualcuno pensa che si possa risollevare il Sud falsificando la storia? Finora da tutto questo strepito, nato come controcanto alla celebrazione del 150esimo dell’Unità d’Italia, hanno tratto profitto solo alcuni scrittori e i loro editori.
E adesso, che la verità si è vendicata, che cosa resta di tanto rumore?
Per saperne di più:
La storia del processo contro il Museo Lombroso
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