Gas italiani in Etiopia, verità e leggenda: fu più la paura della morte
C’è un luogo comune della propaganda bellica etiopica finito, quasi senza colpo ferire, nella storiografia, più o meno “ufficiale”: l’Italia, come sosteneva ras Cassà, avrebbe piegato le truppe del negus a botte di aggressivi chimici messi al bando dalle convenzioni. La verità è ben altra: è vero, usammo l’iprite, ma in misura ridotta e insuscettibile di determinare i risultati della guerra
Iniziamo con due memorie storiche importanti, che provengono dalla stessa fonte: ras Cassà Darghiè, cugino in seconda del negus Hailé Selassié e comandante etiope del fronte nord assieme ai ras Sejum Mangascià e Immirù Hailé Selassié.
Ecco la prima: «Il bombardamento era al colmo quando, all’improvviso, si videro alcuni uomini lasciar cadere le loro armi, portare urlando le loro mani agli occhi, cadere in ginocchio e poi crollare a terra. Era la brina impalpabile del liquido corrosivo che cadeva sulla mia armata. Tutto ciò che le bombe avevano lasciato in piedi, i gas l’abbatterono».
E ancora: «In questa sola giornata un numero che non oso dire dei miei uomini perirono. Duemila bestie si abbatterono nelle praterie contaminate. I muli, le vacche, i montoni, le bestie selvatiche fuggirono nelle forre e si gettarono nei precipizi. Gli aerei tornarono anche nei giorni successivi. E cosparsero di iprite ogni regione dove scoprirono qualche movimento».
Seconda memoria storica: «A Choum Aorié le cento mitragliatrici che furono prese là caddero nelle nostre mani senza l’aiuto del fucile ma solo con quello delle sciabole. Nessuna forza di terra avrebbe potuto arrestare i miei uomini, che sembravano passare fra le raffiche. Essi piombavano così rapidi sugli italiani che gli strappavano dalle mani il fucile».
Il sottinteso di queste dichiarazioni è piuttosto chiaro: i soldati etiopi erano combattenti di grande valore, capaci di vincere all’arma bianca contro avversari armati e l’Italia ha potuto piegarli solo grazie all’uso dei gas.
Queste e altre dichiarazioni sono approdate praticamente senza filtri nelle opere di Angelo Del Boca, che quando scrive di Etiopia è di una faziosità anti italiana senza pari. E, purtroppo, hanno alimentato un altro mito: quello relativo ai crimini di guerra italiani.
Quanto c’è di vero?
Gas italiani tra fake e propaganda
Contestualizziamo le due dichiarazioni di ras Cassà. Per quel che riguarda i mitra catturati c’è da dire che è vero che le truppe del cugino del negus ottennero dei successi parziali durante la campagna del Tembien (20 gennaio 1936) e misero in difficoltà le truppe italiane, sottoposte a pesante assedio nel fortino di passo Uarieu fino al 24 gennaio.
Dopodiché, e senza nulla togliere al valore degli etiopi, occorre dire che il Regio Esercito non ha mai perso cento mitragliatrici in tutta la guerra.
Insomma, una fake bella e buona, che dovrebbe far riflettere sulle dichiarazioni di ras Cassà sui gas, che puzza anch’essa di propaganda di grana grossa. Infatti, per ottenere l’intossicazione istantanea descritta dal generale negussita l’aviazione italiana avrebbe dovuto utilizzare un quantitativo enorme di iprite, che avrebbe comportato l’uso di bombe per molte decine di tonnellate. L’Italia, ovviamente, non l’ha fatto, soprattutto perché non aveva tutte queste bombe da lanciare e gli aerei necessari a disposizione per un singolo raid.
Paradossalmente, le dichiarazioni di Cassà confermano quel che, di recente, ha documentato il giornalista Alberto Alpozzi nel suo Bugie Coloniali II (Eclettica, Massa 2022): l’esercito etiope non era armato malissimo ed era tutt’altro che inerme rispetto a quello italiano, come ha invece sostenuto molta pubblicistica del dopoguerra, a partire dall’ex fascista Paolo Monelli.
A questo punto sono scontate alcune domande: quanto gas abbiamo usato per davvero e quanto questo gas è stato determinante nella vittoria italiana?
Prima di rispondere, è doveroso ricordare che la Guerra d’Etiopia è stato il primo conflitto del XX secolo ad alta copertura mediatica: tutti i giornali del mondo avevano mandato i loro corrispondenti nel Corno d’Africa per seguire i combattimenti. Tra di loro, ha spiccato per bravura, onestà e anticonformismo il britannico Evelyn Waugh.
Difficilmente si sarebbe potuto nascondere l’uso dei gas, su cui circolavano voci pesanti proprio nel nutrito battaglione internazionale di giornalisti e scrittori.
Iprite, arsina e non solo: verità e leggende sui gas italiani
È il caso di ripeterlo: l’Italia ha usato i gas in Etiopia, anche a dispetto delle convenzioni internazionali che li mettevano al bando: in particolare, la Conferenza navale di Washington (1920) e il Protocollo di Ginevra (1925).
Questo atteggiamento di fronte agli aggressivi chimici non ha nulla di criminale, ma fa parte della cultura di tutti gli ufficiali (e non solo di quelli italiani) formatisi nella Grande guerra.
Si pensi solo che il più famoso di questi, il diclorodietilsolfuro, deve il suo nome comune, iprite, al suo primo utilizzo: a Ypres, in Belgio, nel 1917.
Gli addetti ai lavori definiscono l’iprite un vescicante. È una sostanza che provoca lesioni cutanee (vesciche e piaghe, spesso dolorosissime), cecità temporanea e, se inalata, infezioni agli apparati respiratorio e cardio-circolatorio. Dall’iprite, se curati per tempo, normalmente si guarisce. I danni (che vanno dalle ferite gravi e quasi incurabili alla morte) dipendono dalla quantità e dal tipo di esposizione. Inoltre – ed è forse questo l’aspetto più pericoloso – il gas è poco solubile: una volta irrorato resta sul terreno più giorni.
Tutto questo, in condizioni ottimali, tipiche più del teatro europeo (per cui l’arma fu sostanzialmente progettata) che di quello africano. Date le condizioni ottimali di clima e umidità, l’iprite ha bisogno di una concentrazione minima di un decimo di grammo per metro cubo. Ma questa situazione, ammoniscono gli esperti, è più da laboratorio che da vita reale (per fortuna…). Quindi le dosi necessarie di gas possono arrivare a decine di tonnellate per singolo raid.
Peggio che andar di notte per l’arsina e il fosgene, che richiedono una concentrazione minima doppia e hanno, comunque, effetti decisamente minori dell’iprite.
Che tra l’altro risulta comunque meno letale rispetto a varie armi convenzionali (ad esempio, gli spezzoni incendiari, abbondantemente utilizzati anche in Etiopia), come documenta Attilio Izzo, maggiore del Regio Esercito ed esperto della materia, nel suo Guerra chimica e protezione antigas (Hoepli, Milano 1938).
Ne ammazzano più le pallottole dei gas
In questo dettagliatissimo volume, Izzo fa una comparazione tra gli effetti dei gas e quelli delle armi convenzionali durante la Grande guerra.
Il risultato è sorprendente: su 100 soldati colpiti da gas, il tasso di guarigione è altissimo (94,65), superiore a quello dei soldati colpiti da armi convenzionali (62,68). Gli invalidi permanenti tra i gassati sono una percentuale bassa (3,62 su 100), poco meno di un terzo di quelli dovuti ad armi da fuoco (12,67 su 100). Infine, la forbice tra gassati e colpiti da armi convenzionali si allarga a dismisura per quel che riguarda i morti (1,73 su 100 i gassati, 24,75 su 100 gli altri).
L’offensività effettiva è davvero poca. E tende a diminuire nelle condizioni climatiche dell’Etiopia, specie sugli altipiani, dove le escursioni termiche e il clima secco tendono a diradare i gas.
Allora, quale è la reale utilità militare dei gas, specie nei contesti africani o comunque coloniali?
Innanzitutto, l’effetto psicologico sui nemici, come spiega il generale britannico John Frederick Charles Fuller nel suo saggio The Reformation of War (1923): «Il gas è per eccellenza l’arma della demoralizzazione e, poiché può terrorizzare senza necessariamente uccidere, più di ogni altra arma conosciuta può servire ad imporre in modo economico la volontà di una nazione ad un’altra». E questo spiega come mai, anche in barba alle convenzioni, i gas li abbiano usati più o meno tutti, Italia inclusa.
Così gassan tutti
Il primo paese a servirsi dei gas subito dopo la Grande Guerra è l’Italia liberale, che come documenta ancora Alberto Alpozzi nel suo Bugie Coloniali II usa i gas su ordine dell’allora ministro delle Colonie Giovanni Amendola a partire dal 1919.
Chi usa di più i gas è l’Impero Britannico, che negli anni ’20 ne fa un largo impiego in Mesopotamia. Poi, evidentemente alla luce di questi risultati, lo stato maggiore inglese bissa nel 1931 a Sulainam, sempre in Iraq, per sopprimere il leader curdo Karim bey e i suoi seguaci. Infine, i gas britannici rifanno capolino ai confini tra Afghanistan e India per sedare la ribellione delle tribù pathane. In questo caso, l’uso di aggressivi chimici è imposto dall’allora segretario alle Colonie Winston Churchill.
Non possono mancare nella lista dei colonialisti gassatori francesi e spagnoli, che usano i gas a più riprese nel Rif contro i marocchini tra il 1921 e il 1928.
Fanalino di coda, l’Unione Sovietica usa i gas nel 1921, contro gli operai in rivolta a Tambov.
Per gassare ci vogliono le bombe
L’immagine del soldato coloniale italiano che irrora i guerrieri etiopi con l’insetticida è tratta da una cartolina di propaganda a tema satirico.
Ma l’idea che suggerisce, cioè l’uso di lanciagas, è falsa. I gas come l’iprite, il fosgene e l’arsina hanno un veicolo quasi obbligato: le bombe e i proiettili da mortaio. L’aeronautica militare italiana dispone delle bombe C500 T, dotate di una caratteristica particolare ma non sempre funzionante: la spoletta T, una specie di timer programmato per far esplodere la bomba a 250 metri dal suolo e quindi irrorare l’iprite liquida un po’ dappertutto.
Ciascuna di queste bombe pesa circa 280 kg in tutto e contiene 221 kg di iprite che si espandono su un’area ellittica lunga tra i 500 e gli 800 metri e larga tra i 100 e i 200. Questo quando tutto va bene, perché in realtà molte bombe non si sganciano dall’aereo oppure arrivano a terra senza esplodere. Il caso più celebre è l’attacco ai guadi del Tacazzè, durante il quale su un totale di 37 ordigni predisposti al lancio, solo 29 riescono a sganciarsi e, di queste, solo 19 esplodono.
L’aviazione dispone di altri due tipi di bombe più piccole: da 22 kg totali caricate con 13 kg di iprite e da 30 e 40 kg caricate a fosgene.
Non risultano impiegati altri mezzi per spargere i gas, ad esempio bombole e lanciagas, perché il corpo di spedizione italiano in Etiopia non dispone di personale qualificato a sufficienza per gestire questi mezzi terrestri. Di sicuro più efficaci nel contatto ravvicinato, ma anche più pericolosi per chi li usa.
Infatti, sotto questo ultimo aspetto emerge un dettaglio che la dice lunga: non risultano particolari precauzioni adottate per le truppe italiane e coloniali (maschere antigas e tute anti iprite), segno che lo stato maggiore di Pietro Badoglio ha previsto un uso limitato degli aggressivi chimici. In questa situazione, quali sono i reali danni provocati dai gas e quindi i comportamenti davvero criminali dal punto di vista militare?
Gas tricolori: più appariscenti che efficaci
Per rispondere, torniamo a ras Cassà e alle sue truppe. Per avere gli effetti raccontati dal generale etiope l’aviazione avrebbe dovuto utilizzare in ogni singolo raid una concentrazione di bombe e aerei davvero importante, ma fuori dalla portata tecnologica dell’epoca e, in particolare, della nostra aeronautica.
Gli studi recenti più approfonditi sui gas italiani li ha compiuti lo storico Pierluigi Romeo di Colloredo Mels.
Su quest’argomento, Colloredo ha pubblicato vari articoli, tra cui si cita Gassate! (in Speciali di Storia in Rete del 21-04-2020) e il ricchissimo volume Guerra chimica in Etiopia, 1935-1936 (Colloredo, Massa 2023 ma prossimo alla seconda edizione), da cui chi scrive ha attinto molti dati tecnici.
Focalizziamoci sulle truppe di Cassà, che durante gli scontri più duri con il corpo di spedizione italiano occupano un fronte di circa 4 km quadri, ai quali occorre aggiungere una cubatura di almeno dieci metri d’altezza. Per avere un risultato efficace, secondo i calcoli riportati dal maggiore Izzo, occorrerebbero dalle 30 alle 60 tonnellate di iprite. Tradotto nella tecnologia aerea di cui dispone l’Italia a metà anni ’30, significa una squadra di almeno 30 bombardieri (la capacità massima di un singolo bombardiere è di 1.000 kg circa di bombe) in volo compatto e in grado di sganciare gli ordigni quasi all’unisono in un singolo raid.
Tutto questo, all’epoca, oltre che antieconomico è impossibile.
Etiopi morti per gas: quanti sono?
Se gli effetti sono stati così ridotti, perché lo stato maggiore italiano ha deciso di usare comunque i gas?
In parte per cultura militare, in parte per ottenere alcuni risultati diretti sul campo di battaglia. L’iprite, s’è già detto, fa paura. E si segnala per una caratteristica particolare: un odore intenso di senape, a causa del quale gli esperti anglosassoni l’hanno ribattezzata mustard gas.
Gli aerei italiani hanno bombardato coi gas in maniera selettiva guadi e passaggi, per costringere gli abissini, che riconoscono l’iprite dall’odore a evitare quelle zone e incanalarsi in altre direzioni, dove ovviamente li aspettano le truppe italiane armate fino ai denti…
L’uso italiano dei gas è tattico e di sicuro meno letale delle armi convenzionali. Già, ma quanti sono i morti etiopi a causa dei gas? Colloredo calcola in circa 5.000 i soldati negussiti colpiti dai gas. Tra questi ne sarebbero morti tra i 350 e i 500 per le esalazioni.
Con tutto il rispetto e l’onore dovuti a chi muore per il proprio Paese e per il proprio imperatore, è doveroso dare un’occhiata, anche superficiale alle statistiche per capire che, nell’ipotesi migliore, i caduti per i gas sono meno dell’uno percento dei morti etiopi, che oscillano complessivamente tra i 50.000 e i 70.000.
Ripetiamo: ciò non toglie nulla a guerrieri coraggiosi e determinati come gli abissini, capaci di eroismo, oltre che, purtroppo di barbarie. Ma riporta la questione gas nei giusti binari.
L’utilizzo degli aggressivi chimici è una parte tutto sommato marginale in un conflitto determinato da ben altri fattori (ad esempio, la meccanizzazione dei trasporti e la tecnologia degli armamenti convenzionali).
Un fatto così marginale da pesare nella bilancia dei torti allo stesso modo di un’altra violazione, stavolta etiope: l’uso delle pallottole dum dum, le micidiali cartucce esplosive bandite dalle convenzioni ma fornite in quantità generose dalle ditte britanniche e francesi che non avevano più dove smerciarle. Un abuso ne pareggia un altro.
Tutto il resto è la storia della propaganda negussita, che si è trasformata in materiale storiografico e merita un approfondimento a sé.
Per il resto, fa ancora molta impressione spulciare le macabre statistiche di una guerra che a breve compirà novant’anni. Ma tant’è: la guerra, da cui l’Italia e l’Occidente sembrano miracolosamente esonerati da quasi ottant’anni, è un brutto tempo. È, per citare un bel romanzo di Ennio Flaiano, tra l’altro ambientato nel Corno d’Africa, Tempo di uccidere.
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