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L'incontro tra Mattarella e Pahor

Foibe, dopo la visita a Basovizza si volta pagina

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Le atrocità titine ora sono una verità “ufficiale” anche per gli Sloveni. Una verità parziale e negoziata, certo. Ma anche un passo in avanti per una ricostruzione della memoria serena, condivisa e condivisibile. Non è davvero poco…

Sulle foibe si può continuare a polemizzare all’infinito. Anzi, lo si farà di sicuro.

Ma dopo la visita del presidente Mattarella e del suo omologo sloveno, Boruth Pahor, alla foiba di Basovizza, non si potranno più fare alcune cose: negare l’esistenza dei massacri titini, ridimensionarli o sottoporli – come si è fatto spesso, anche di recente – a interpretazioni “lenitive”.

La foiba di Basovizza

Già, l’incontro dei due presidenti ha avuto senz’altro un forte valore simbolico, ma non nel senso in cui lo hanno raccontato le principali testate italiane, che si sono profuse in fiumi di retoriche degne della propaganda di regime più stucchevole.

No, non è vero che quella stretta di mano ha segnato una riconciliazione, perché Italia e Slovenia non hanno mai avuto rapporti tesi.

E non è vero che, solo in seguito a questo incontro, anche dall’altra parte dell’Adriatico inizino ad accettare la verità della tragedia subita dagli italiani: tutti i popoli della ex Jugoslavia hanno provato sulla propria pelle le feroci repressioni del sistema titino, con forme di macelleria superiori, per numero e spesso per ferocia, a quelle subite da noi. E non è proprio un caso che, in seguito alla crescita economica di alcuni di questi Paesi (Slovenia e Croazia) o alla loro stabilizzazione (Bosnia), lo jugonostalgismo, coltivato da non pochi lo scorso decennio, sia iniziato a evaporare.

Con la cerimonia del 13 luglio, Mattarella ha chiuso il cerchio aperto a febbraio, in occasione del Giorno del ricordo, quando, in seguito alle polemiche suscitate da un convegno dell’Anpi, è intervenuto con una dichiarazione inequivocabile: «Fu pulizia etnica».

La stretta di mano tra Boruth Pahor e Sergio Mattarella

In quest’ottica, il fatto che Pahor abbia reso omaggio ai morti infoibati a Basovizza è il vero aspetto importante dell’evento: significa che, anche per gli sloveni quei morti sono una verità ufficiale e che quei morti, ancor oggi difficili da quantificare, sono la traccia indelebile di una barbarie.

Non è poco per un Paese che ha – sia nella versione jugoslava sia in quella attuale – stimolato a vario titolo ricerche storiche che miravano a fare la radice quadrata delle responsabilità titine fin quasi a negarle e a ingigantire quelle italiane in maniera esponenziale, coll’immancabile ricorso all’antifascismo.

Certo, come tutte le verità “ufficiali” o di Stato, anche quella emersa lunedì 13 luglio è una verità negoziata e parziale: la rappresentanza italiana ha glissato, ad esempio, sulle reali dinamiche della distruzione della Narodni Dom, ristrutturata da poco e “restituita” alla comunità slovena di Trieste.

Insomma, sia Pahor sia Mattarella hanno “sacrificato” una parte delle rispettive memorie collettive per ottenere dei risultati: la liberazione dei rapporti tra Italia e Slovenia da ipoteche novecentesche.

E in questa “liberazione” chi ci ha guadagnato è l’Italia, perché il riconoscimento sloveno della tragedia degli infoibati è un riconoscimento pesante. È l’ammissione che parte del proprio passato e della propria identità si è costruita su un crimine contro l’umanità.

Con buona pace di alcuni esponenti dell’Anpi, che continuano ad arrogarsi il ruolo di gendarmi della memoria in nome di un antifascismo “eterno” e fastidioso, degno contraltare all’ur-fascismo teorizzato da Umberto Eco anni orsono.

Il maresciallo Tito

Ma con buona pace anche di alcuni superstiti della destra post-missina, Roberto Menia in testa, che hanno costruito le proprie fortune sulla propaganda martellante sulle foibe.

«È stata una memoria a metà», ha tuonato l’ex parlamentare triestino, ora in forza a Fratelli d’Italia, dalle colonne del Tempo.

In teoria non gli si potrebbe dar torto: i quattro sloveni fucilati nel 1930 col capo di imputazione di atti di terrorismo a cui Mattarella ha reso omaggio assieme a Pahor, non sono lontanamente equiparabili, anche come presunto crimine italiano, ai circa duemila infoibati di Basovizza.

Non lo sono a livello quantitativo né nel merito.

Una cosa è la repressione, anche brutale, operata da uno Stato sovrano sul proprio territorio, di presunte organizzazioni terroristiche, com’era considerata il Tigr (e tale sarebbe stata considerata anche dall’Italia prefascista o da qualsiasi altro Paese europeo).

Profughi istriani

Un’altra, e ben diversa, la bassa macelleria praticata dalle truppe jugoslave sul territorio italiano a danno di civili, non solo italiani (tra gli infoibati figurano non pochi sloveni e croati), disarmati e inermi.

Le tragedie della storia non si misurano un tanto al chilo, ma dovrebbero essere valutate da una lettura della storia serena e senza complessi: quella che si sta facendo largo in Italia col ridimensionamento di certi gendarmi della memoria, i quali per decenni hanno prodotto verità di parte coi soldi di tutti.

Tuttavia, questa lettura deve farsi strada anche nei Paesi ex jugoslavi, dove il titismo non è mai stato sottoposto a una seria revisione (e relativa storicizzazione), ma è stato semplicemente rimosso.

E questa rimozione si spiega anche con la permanenza di consistenti spezzoni della ex Jugoslavia nei posti di comando delle varie repubbliche balcaniche, dalla politica ai deep states, alla cultura.

Di fronte a questo muro di connivenze e reticenze omertose Mattarella forse non fatto ha tutto quel che si poteva e doveva fare. Ma comunque ha fatto di più di quel che ha realizzato la destra dei vari Menia quando ha avuto in mano l’Italia.

La cerimonia italo-slovena potrebbe, al netto di ogni polemica, segnare il punto di avvio di una riflessione importante anche a sinistra, dove le ipoteche di certo antifascismo vintage continuano a pesare troppo, anche a dispetto dei tempi che cambiano.

Ora che la politica ha celebrato i suoi riti, la parola torni agli intellettuali, ai produttori di cultura che la destra non ha saputo promuovere e tutelare e che la sinistra ha irreggimentato sin troppo.

Finalmente c’è l’occasione di voltare pagina? Lo si spera.

Saverio Paletta

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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