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Immagine simbolica dei moderni boiardi di Stato

Io sono il potere, l’autobiografia di chi comanda

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Il libro di Giuseppe Salvaggiulo fa luce sui protagonisti meno conosciuti della vita pubblica del Paese: i capi di Gabinetto, che tengono le fila e tessono le trame dell’azione politica e dell’attività amministrativa. Sono i boiardi delle democrazie moderne, ma assolvono funzioni importantissime che li rendono indispensabili. Con buona pace di chi vorrebbe sbarazzarsene…

Li abbiamo divisi, li abbiamo messi l’uno di fronte all’altro perché si controllassero (e spesso si sono ritrovati l’uno contro l’altro, specie negli ultimi anni).

Ma non ce ne voglia Montesquieu: hai voglia a separare i poteri, e magari a renderli diffusi, come usa molto nella democrazia 2.0, ché il potere resta uno.

Charles-Louis Secondat detto Montesquieu

Il potere ha una struttura sfuggente, ai limiti della congettura metafisica e ai confini col Dogma della Trinità: è una risorsa rara, più dei metalli più pregiati, e tende comunque a concentrarsi, anche a costo di prendere le vie più traverse. Soprattutto, vive un particolare paradosso: è visibile, a volte sin troppo, fino a sconfinare nel kitch più orgoglioso (Trump docet), ma funziona di più nella penombra, come conviene ai Misteri.

Il potere ha una scintilla divina: è la capacità di far accadere le cose. È una disciplina quasi musicale, che richiede talento, perizia, preparazione e dedizione. È un’arte che si impara con l’esercizio e si perfeziona con l’abitudine. Di più: è un’arte indispensabile.

Ecco perché i capi di Gabinetto, di cui ci racconta con ironia elegante e un pizzico di cinismo Giuseppe Salvaggiulo nel suo Io sono il potere. Confessioni di un capo di Gabinetto, uscito a marzo dai tipi di Feltrinelli, appaiono dei virtuosi.

Si fa presto a definirli casta, come pure si sarebbe tentati sulla scia di certo giornalismo, apparentemente d’inchiesta ma tabloid nell’anima. Tuttavia così si coglierebbe solo l’aspetto più superficiale e grossolano del ruolo dei capi di Gabinetto.

È brutto a dirsi, per chi di certe cose ha concetti più elevati: i capi di Gabinetto (e, con loro, i capi degli uffici legislativi) dei ministeri sono un’aristocrazia. Anzi, sono l’aristocrazia 4.0 della società postmoderna in cui la postpolitica affoga nell’incompetenza e nell’elettoralismo farcito di postverità, fake e scempiaggini, appena condite da finti moralismi.

La copertina di “Io sono il potere”

Meno militarizzati e burocratici dei direttori generali tanto temuti dall’Andreotti d’antan, i capi di Gabinetto sono, sulla carta, qualcosa di meno dei vertici delle burocrazie (non sono inamovibili) ma spesso molto di più dei ministri a cui, formalmente, sono sottoposti.

Sono il tramite indispensabile tra la volontà politica, che possono a volte rendere fattibile a dispetto dell’impossibilità (e viceversa), e una burocrazia elefantiaca, vecchia e spesso incompetente.

Leggere per credere quest’illuminante passaggio del libro:

«La burocrazia è la maggiore azienda del Paese, impiega un italiano che lavora su cinque. Una massa di dipendenti in media vecchi (51 anni), mal pagati e professionalmente dequalificati (il 60 per cento senza laurea)».

Di fronte a questo spettacolo credete davvero che i capi di Gabinetto non servano? Un po’ superburocrati, un po’ lobbisti, costoro sono uomini di mediazione e di azione. Ripetiamo: rendono possibili le cose, a dispetto dei vincoli politici e dell’inadeguatezza di molti ministri.

Già, ribadisce l’anonimo superconfidente di Salvaggiulo:

«Noi facciamo politica. Più e meglio dei politici. Ma senza dichiararlo. La facciamo in nome di un interesse superiore, perlopiù. Talvolta, ed è la patologia, per interessi particolari».

Giuseppe Salvaggiulo

Certo, per essere aristocratici nel senso letterale e pieno del termine, occorre quantomeno partire da una condizione non facilissima: essere membro di una élite. E non è un caso, fa capire la gola profonda di Salvaggiulo, che la maggior parte dei gabinettisti (così vengono definiti in gergo) provenga dai ranghi del Consiglio di Stato, della magistratura o degli altri organi di rilevanza costituzionale (per capirci, Corte dei Conti o affini).

Per loro, essere trombati nei totonomine, che avvengono ad ogni cambio di governo tra una legislatura e l’altra o nella stessa legislatura, può non essere quel gran dramma: male che gli vada, spiega il suggeritore del libro, torneranno a scrivere sentenze, far lezione e articoli scientifici. Il pane, detto con un pizzico di volgarità, non gli mancherebbe.

Questo nell’ottica dell’uomo comune, incluso chi scrive.

Ma vuoi mettere l’ebrezza di trovarsi nella stanza dei bottoni e, persino di bacchettare qualche big, com’è capitato a Roberto Garofoli, che prima di essere costretto alle dimissioni, aveva contraddetto big del calibro di Renzi e Conte?

Ci sono capi di Gabinetto inamovibili. E anzi, proprio la loro inamovibilità può essere garanzia di tenuta delle istituzioni, considerata l’attuale volatilità della classe politica e l’insufficienza della base burocratica. Poi ce ne sono che durano un battito di ciglia, di solito (com’è avvenuto da Renzi in avanti) perché provengono dalle amministrazioni più periferiche e sono stati spinti da quell’onda particolare per cui l’input politico è emerso una volta tanto dalla provincia e non dalla Capitale.

Roberto Garofoli

Poi, c’è ministro e ministro. Ad esempio, c’è stato Giuliano Amato, che univa le competenze accademiche e la militanza politica al rigore del travet d’alto bordo e si è dimostrato in grado di dialogare da pari a pari coi suoi megadirettori. Ma ci sono, e sono i più, gli sprovveduti, che devono farsi portare per mano dai loro capi di Gabinetto, indispensabili sia come funzionari sia come lobbisti, per far passare una legge, spingere un decreto e mettere d’accordo le esigenze del partito (non importa quale) con quelle della legalità e, quando è necessario, di vasti settori della cittadinanza.

In questi ambienti, tutti comunque ubicati a Roma (anche i leghisti vecchia maniera alla Calderoli, ricorda l’anonimo ispiratore del libro, sono romanizzati), le cose funzionano diversamente da come le abbiamo apprese dai testi universitari. Le leggi non si fanno proprio secondo quanto spiegano i manuali di Diritto costituzionale (e men che meno il Bilancio o il Dpef, che sono oggetto di negoziazioni degne di sofisticherie diplomatiche da Ancien Regime).

Questo mondo è fatto di club, circoli esclusivi e giri d’alto bordo. Di tutto ciò che una volta si chiamava generone. Già: il salto di qualità dalla élite all’aristocrazia vera e propria può avvenire solo tramite cooptazione. Le basi saranno pure fatte di merito e di meriti, più o meno particolari, ma certe scale si salgono solo con le conoscenze giuste e si resta a certe vette solo se autorevoli o ben accetti da chi comanda (e spesso le due cose coincidono).

Non c’è da stupirsi, allora, se la giornata lavorativa del capo di Gabinetto sfori il più delle volte le dodici ore vissute intensamente, tra scartoffie burocratiche e diplomazie più o meno occulte o parallele. In questo mondo romano una cena con le persone giuste o un aperitivo nel luogo giusto può valere una riforma azzeccata o un problema sbrogliato con efficacia.

Giuliano Amato

Qui la leggenda della casa di vetro significa poco e serve ancor meno.

Qui, all’interno del Deep State, agisce – per dirla con Alessandro Pizzorno – il nucleo cesareo del potere, irriducibile alla volontà popolare e costretto al massimo a una legalità ridotta il più delle volte a forma.

Qui, nel cuore duro del potere, le regole sono altre e servono la democrazia, quando la servono, in maniera indiretta, iniettandovi doti non democratiche (o non necessariamente tali): la competenza, la cultura e quella capacità di mediare tra più interessi, privati e di parte, che possono non coincidere con l’interesse pubblico.

Questo dietro le quinte, rivelato con il garbo necessario a trattare una materia rovente e con l’ironia indispensabile a non suscitare indignazioni non necessarie, non riguarda un mondo a parte, completamente altro.

Ci sono casi in cui i grand commis sono riusciti a salire sul proscenio della vita pubblica e a tener testa ai protagonisti, non più assoluti come ai tempi della Prima Repubblica: al riguardo è più che illuminante il capitolo dedicato al rispettato e temuto Gianni Letta, che forse incarna al massimo le qualità richieste a questi consigliori della politica.

E ci sono casi in cui i protagonisti del mondo visibile della politica provengono da questo Deep State: dice nulla, al riguardo, la vicenda di Giuseppe Conte che, partito dal vivaio del Consiglio di Stato, è diventato presidente del Consiglio, è sopravvissuto a una crisi di governo e ha rafforzato il suo ruolo a livello politico senza essere passato da nessun vaglio elettorale?

Gianni Letta

Certo, è presto per dire se la parabola di Conte sia l’inizio di un mutamento oligarchico della classe politica italiana oppure se sia solo una casualità. Tuttavia, l’incapacità esibita a più riprese dai partiti attuali di selezionare una vera classe dirigente fa propendere per l’ipotesi della trasformazione.

In tal caso, Io sono il potere risulta una fotografia brillante della situazione attuale della classe dirigente italiana, in cui l’alta burocrazia si politicizza per ovviare alle insufficienze della politica e quest’ultima si riduce a un grigiore nei cui confronti la peggiore accezione dell’aggettivo burocratico potrebbe suonare come un complimento.

Una foto forse a colori un po’ troppo vividi ma non per questo poco veritiera. Soprattutto, una foto poco edulcorata, in cui non si nasconde nulla. Anche quando i dettagli più insignificanti possono offendere alcune coscienze e molte ipocrisie.

Certe qualità, importanti nelle società complesse e indispensabili in quelle incasinate come la nostra, non si improvvisano e non si selezionano nelle urne.

«Non siamo insostituibili perché siamo i migliori. Al contrario, siamo i migliori in quanto insostituibili», chiosa l’anonimo suggeritore di Io sono il potere.

Una seduta del Consiglio dei ministri

Forse non è proprio così, ma al momento non si capisce davvero come una politica così malridotta possa fare a meno di questi pezzi da novanta.

Già, prosegue ancora l’anonimo potente:

«Anche i politici più presuntuosi prima o poi se ne accorgono. E la smettono, finalmente, di chiamarci burocrati, Gattopardi, Mandarini, Boiardi, Parrucconi».

Non è il caso di chiedere ai cittadini comuni di fare altrettanto, ci mancherebbe. Ma è doveroso per tutti iniziare a conoscere più da vicino questa razza padrona. E, a tale scopo, Io sono il potere offre un aiuto più che valido.

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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