Vanterrania, una chitarra siciliana sfida l’elettronica
Rock, industrial e sperimentazione spinta in Elettronix, l’album dell’artista catanese che forza i confini dell’ascoltabile
La sperimentazione, che già non è un terreno facilissimo, in Italia diventa una zona pericolosa, come lo sono tutte le zone di confine. Chi vi si cimenta deve mettere in conto l’incomprensione del pubblico e, a volte, degli addetti ai lavori, che non sempre approcciano certi prodotti con lo spirito giusto, cioè quello del cacciatore di novità.
Prendiamo il caso di Elettronix, l’album, appunto, ultrasperimentale pubblicato dal catanese Giovanni Brancati, conosciuto al pubblico degli appassionati come Vanterrania: chi lo approccia si troverà alle prese con un mix di suoni duri, eppure dilatati, ritmiche geometriche e melodie distorte e affogate in armonie minimali e dissonanti.
Non è, propriamente, roba con cui ci si possa arricchire, né materiale che, anche solo indirettamente, possa aspirare a qualche forma di mainstream. È solo la ricerca di un artista, tra l’altro veterano della scena siciliana frequentata da protagonista a partire dai lontani anni ’80.
La domanda è quasi spontanea: su quali basi può essere impostata la sperimentazione di un quarantenne formatosi nel periodo più formalista dello scorso secolo?
La risposta è intuitiva ma non così scontata: nel caso di Brancati, i musicisti più di confine, ci scusiamo per la ripetizione, della sua generazione. Quindi i Joy Division, i Litfiba prima maniera (quelli veri, secondo i fan), i Sonic Youth e, su un versante più pop, ma l’espressione è impropria in tale contesto, Brian Eno e The Cure.
Sulla base di questi ascolti, il chitarrista catanese ha assemblato (è il verbo giusto) il suo particolarissimo prodotto, letteralmente costruito al sequencer.
Il sound è, a dir poco strano, nell’accezione più positiva: i riff di chitarra sono durissimi, a volte ai limiti della cacofonia, segno che il Nostro ha ben appreso la lezione del noise e dell’industrial. Ma l’uso massiccio del flanger e dei riverberi, a volte ai limiti delle tecniche del Robert Fripp anni ’70, dà un effetto di dilatazione, che proietta l’ascoltatore in una dimensione psichedelica.
Dodici brani da ascoltare in cuffia e uno dietro l’altro per coglierne appieno gli spunti. Sperimentare è un lavoro sporco e duro, specie quando ci si impegna a mescolare rock ed elettronica per forzare i confini dell’ascoltabile. Ma qualcuno lo deve pur fare.
E Vanterrania è l’uomo adatto.
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