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Lonely Kamel, stoner rovente dai fiordi della Norvegia

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Death’s-Head Hawkmoth è il quarto album della band scandinava che mescola in maniera originale la lezione dei Black Sabbath con lo space rock degli Hawkwind e il metal dei Motorhead

Se siete nostalgici di certe sonorità anni ’70, lo stoner è quello che vi ci vuole. Se, oltre alle sonorità fangose e sferraglianti, amate le citazioni psichedeliche e space, i Lonely Kamel fanno per voi.

Il trio di Oslo ha lasciato la Napalm Records per entrare nella Stickman Records, etichetta teutonica specializzata in sonorità vintage, e, a quattro anni di distanza dal bel Shit City (2014), sforna l’ottimo Death’s-Head Hawkmoth, in cui rilancia in maniera più raffinata la propria ricetta musicale: brani più lunghi, parti strumentali più ricercate che tuttavia non sconfinano nella divagazione e riferimenti più precisi a certo heavy classico (Motorhead in testa).

I Lonely Kamel in posa (si fa per dire…)

Un suono di gong e si parte con Fascist Bastard, un omaggio serissimo ai Black Sabbath prima maniera: riff cadenzatissimo e cambi di tempo a gogò, con un picco nell’intermezzo strumentale che cita lo space degli Hawkwind. Ottima la prestazione del chitarrista cantante, Thomas Brenna, dotato di una timbrica vocale a metà tra il compianto Lemmy e Dave Wyndow dei Monster Magnet.

Altrettanto varia la seguente Psychedelic Warfare, che attacca di nuovo con un riffone sabbathiano e si sviluppa su un refrain durissimo, marcato dai controtempi del bassista Stian Helle e del batterista Espen Nesset.

Move On è un interludio breve (circa due minuti) e inquietante, che introduce la dinamica Inside, in cui si fa sentire di nuovo la lezione degli Hawkwind: una cavalcata di sette minuti.

Che Lemmy sia un’icona per Brenna e soci lo si capisce benissimo da More Weed Less Hate, il brano più heavy dell’album, che sembra preso di peso dal classicissimo Ace of Spedes dei Motorhead.

Inebriated è un altro tuffo nei ’70 più spinti: tempi cadenzatissimi e andamento rock blues infarcito da riferimenti sfacciatissimi ai Monster Magnet.

Chiude la sarabanda The Day I’m Gone, il brano più lungo della raccolta: dieci minuti zeppi di citazioni, refrain cadenzato che ricorda i Black Sabbath di Sabotage, lunga digressione strumentale space e flash psichedelici qui e lì a impreziosire il tutto.

La copertina di Death’s-Head Hawkmoth

A dispetto dei cambi di formazione e di etichetta, i tre norvegesi, coadiuvati dai chitarristi Vergard Strand Holthe e Jaran Normann (che inspessiscono ad oltranza il già consistente muro sonoro) si confermano come punta di diamante della scena rock nordeuropea.

Lo stoner, che è un ritorno nostalgico al passato di certo rock, grazie ad artisti come loro, ha anche un futuro.

Da ascoltare:

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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