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Briganti Criminali-Gli interventi dello Stato per le vittime abruzzesi

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I documenti originali – e in parte inediti – custoditi nell’Archivio di Stato di Napoli consentono di ricostruire l’opera di sostegno, soprattutto finanziario, del neonato Regno d’Italia alle vittime delle bande e ai loro familiari. Da queste carte esce fortemente ridimensionata l’immagine di “banditi sociali” che in tanti hanno associato ai briganti

Franco Molfese, nella sua celebre monografia del 1964 Storia del brigantaggio dopo l’Unità, ricorda l’azione dispiegata nel campo della sicurezza pubblica delle «province meridionali» da Ubaldino Peruzzi e da Silvio Spaventa in qualità, rispettivamente, di ministro e di segretario generale del Dicastero dell’Interno nel gabinetto FariniMinghetti (1862-1864).

Peruzzi e Spaventa, precisa Molfese, lanciarono una grande campagna propagandistica collegata alla sottoscrizione nazionale in favore delle vittime del brigantaggio. Il 2 gennaio 1863 il ministro dell’Interno diramò ai prefetti una circolare in cui illustrava il significato della sottoscrizione, quale segno tangibile della solidarietà del neonato Regno d’Italia in favore delle province interessate dal fenomeno, e ne indicava il duplice obiettivo di «consolare le sventure domestiche» e di premiare gli atti di coraggio connessi con la repressione.

Il chiostro dell’Archivio di Stato di Napoli

La raccolta si estese a tutto il territorio nazionale, facendo capo a commissioni provinciali e comunali. Nel marzo del 1863 venne costituita a Napoli la Commissione centrale per la distribuzione del fondo nazionale a favore delle vittime del brigantaggio, composta da un rappresentante per ogni provincia, un presidente, un segretario e un cassiere.

Nell’erogazione dei fondi, sia le commissioni provinciali sia quella centrale attuarono un progressivo snaturamento dei compiti inizialmente loro assegnati. Furono sempre corrisposti premi, in genere modesti, per atti di valore individuale, nonché piccoli sussidi alle famiglie povere il cui capofamiglia o il cui sostegno economico fosse rimasto ucciso o gravemente menomato nel corso della lotta contro il brigantaggio. Tuttavia, ai compiti istitutivi «si andò sovrapponendo ben presto la corresponsione di premi, di taglie e persino di pensioni per l’uccisione o per la cattura dei briganti, cose tutte che non erano state enunciate all’origine».

In merito a ciò, Molfese ritiene incontestabile che l’introduzione di premi e taglie abbia creato una «industria della delazione» che resta come macchia indelebile nel quadro della repressione del brigantaggio «e ispira amare riflessioni sul punto di approdo della conclamata politica “moralizzatrice” delle popolazioni meridionali da parte dei governi moderati».

La copertina dell’opera di Molfese

Le carte prodotte dalla Commissione centrale per la distribuzione del fondo nazionale a favore delle vittime del brigantaggio si conservano presso l’Archivio di Stato di Napoli. Esse formano un piccolo ma interessante fondo documentario, diviso per province, dal quale emergono le povere, tragiche vicende di persone comuni che persero i beni, la salute e spesso anche la vita in uno dei tanti drammi di cui è costellata la «grande storia».

Il 6 luglio 1864 Elisabetta Daniele, vedova del cinquantunenne sottotenente della Guardia nazionale Vincenzo De Michele, di Pedicciano di Fagnano Alto (Provincia di Abruzzo Ultra 2), scrive al Prefetto di Aquila[1]: «lagrimando l’espone come il fu suo marito nel giorno 23 giugno prossimo passato, dopo essere stato sorpreso e catturato dai briganti in un casolare sulla montagna, veniva da questi cannibali barbaramente ucciso». La donna, quindi, invoca il soccorso del «paterno Governo del Re» Vittorio Emanuele II affinché le siano accordati «sia una pensione, sia un sussidio valevole a rendere men trista la di lei sorte». La sventurata, infatti, era madre di ben dodici figli: il maggiore era ventunenne, mentre il più piccolo aveva appena sette mesi, essendo nato nel novembre del 1863.

Il 7 luglio 1864 la Commissione provinciale pe’ casi di brigantaggio in Aquila delibera la concessione di un sussidio di 1.310 lire a beneficio della Daniele e dei suoi figli. Quanto alla domanda di vitalizio, la medesima Commissione la ritiene più che fondata, essendo stato il De Michele effettivamente ucciso dai briganti, per giunta mentre ricopriva la carica di sottotenente della Guardia nazionale: ordina pertanto che la domanda della donna, «congiuntamente ad un estratto della presente deliberazione sia rimessa alla Commissione Centrale in Napoli interessandola a prenderla in benigna considerazione».

Ubaldino Peruzzi

Nello stesso giorno la Commissione provinciale dibatte anche sulla domanda di vitalizio di Domenica Di Berardino, vedova di Feliciantonio Fina, «giovine di anni 45 del Comune di Luco in Circondario di Avezzano». La donna, scrivendo al prefetto di Aquila il 27 settembre del 1863, narra che «nel giorno 19 andante alle ore 14 detto suo marito fu proditoriamente e per vendetta ucciso dalla banda dei briganti che infesta le montagne di Luco, ove scorazza impunemente consumando i più atroci delitti da tre anni a questa parte». L’omicidio era una ritorsione dovuta al fatto che il Fina, in qualità di «guardia rurale comunale», aveva più volte guidato la forza pubblica a caccia della banda: «e perciò i briganti per liberarsi di tale ostacolo lo finirono barbaramente con mille sevizie che fanno ribrezzo all’umanità, onde neppure si enunciano». Per questi motivi Domenica Di Berardino chiede l’assegnazione di un vitalizio, essendo rimasta senza mezzi di sostentamento. La donna dichiara, inoltre, di essere minacciata dagli stessi briganti – provenienti da Luco, da Trasacco e da altri paesi limitrofi – che hanno manifestato l’intenzione di trucidarla nella sua abitazione insieme con i figli, «sol perché ha dato tutte le necessarie indicazioni contro di essi briganti».

Silvio Spaventa

Il 16 giugno 1866 la Commissione centrale comunica al prefetto aquilano di aver deciso la concessione di una pensione di 80 lire l’anno a beneficio di Caterina Marsilio, di Bugnara, vedova di Feliciano (o Feliceantonio) Di Tommaso. L’erogazione del modesto vitalizio giunge in ritardo a causa di un disguido che costringe la Marsilio, il 9 marzo 1864, a rivolgersi direttamente al ministro di Grazia e Giustizia a Torino. Nella domanda la scrivente racconta che suo marito era stato ucciso «nella ricordevole notte del 25 luglio 1861», mentre si recava a combattere contro i briganti in qualità di caporale della Guardia nazionale. Pochi mesi dopo l’infausto avvenimento, nel novembre del 1861, la vedova aveva scritto al prefetto d’Aquila precisando le circostanze della morte del Di Tommaso. Questi, nella notte fra il 24 e il 25 luglio del 1861, era rimasto vittima del «fuoco amico». Si era sparsa, infatti, l’infondata voce che dei briganti avessero preso d’assalto alcuni casali di Bugnara. Il caporale si era quindi recato sul posto con altri commilitoni, imbattendosi nella Guardia nazionale di Introdacqua, anch’essa accorsa al falso allarme. Le due parti non si erano riconosciute e avevano cominciato a spararsi addosso: due colpi avevano trafitto e ucciso lo sfortunato caporale.

Diverso, invece, è il caso di Amato Di Marzio, di Campo di Giove. Questi, il 23 luglio 1864, invia al prefetto dell’Aquila la richiesta di un vitalizio, essendo stato gravemente ferito durante uno scontro sostenuto da lui solo contro un grande numero di briganti la sera del 21 settembre dell’anno prima. Un colpo d’arma da fuoco vicino all’articolazione del piede destro, che gli aveva causato la perdita di tre ossa del tarso, lo avrebbe reso invalido per tutta la vita, costringendolo a usare il bastone per tenersi in equilibrio, come da attestato del dottor Alessandro Colaprete, Professore Sanitario del comune di Campo di Giove, unito al fascicolo.

Ancora una vedova, infine, Maria De Berardino di Goriano Valli, è oggetto di un’accorata richiesta rivolta dalla Commissione provinciale pe’ casi di brigantaggio in Aquila al ministro dell’Interno. La donna aveva perso il marito, Gedeone Santarelli, ferito a morte dai briganti presso Avezzano nel 1860. La tragica dipartita del Santarelli l’aveva lasciata sola con cinque figli piccoli da mantenere, in condizioni di grande miseria. Tuttavia la sua domanda di sussidio era pervenuta abbondantemente al di fuori dei termini di scadenza, fissati dall’articolo 25 delle Istruzioni del primo marzo 1863. Trovandosi nell’impossibilità legale di soccorrere la richiedente, la Commissione provinciale sottopone il suo caso al titolare del Dicastero degli affari interni, sollecitando la concessione alla De Berardino di un sussidio su altri fondi del Ministero.

Una banda di briganti

La risposta, però, è negativa: l’11 maggio 1864, da Torino, si fa presente che non solo il Ministero non può derogare ai termini suddetti, ma che esso si trova anche nell’impossibilità di concedere soccorsi su altri fondi, «e ciò per non stabilire un principio in forza del quale dovrebbe sussidiare tutti coloro che si trovano nel caso identico».


[1] Tutti i documenti citati nel presente articolo sono contenuti in: Archivio di Stato di Napoli, Commissione centrale per la distribuzione del fondo nazionale a favore delle vittime del brigantaggio, busta 1, fascicolo 6.

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