The Unseen In Between: torna Steve Gunn, l’astro nascente del folk-rock
Il nuovo album del chitarrista-cantautore newyorchese si regge in perfetto bilico tra la tradizione popolare angloamericana e il grande rock anni ’60 arricchito da garbate citazioni psichedeliche
Giusto il tempo di produrre True North, l’ultima uscita del suo maestro Michael Chapman, e Steve Gunn ritorna in pista col suo recente The Unseen In Between (Matador, 2019), il suo quarto album in studio.
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Ancora una volta il chitarrista di Brooklyn propone la sua ricetta gustosa a base di folk rock dai toni westcoastiani e ricca di arrangiamenti raffinati, grazie all’ottima produzione di James Elkington e alla collaborazione di un ottimo staff, costituito da Tony Garnier, bassista e sodale di lungo corso di Bob Dylan, dal batterista TJ Mainiani, che vanta una lunga gavetta nel jazz, da Meg Baird, cantante-chitarrista di lungo corso a dispetto della giovane età, dal tastierista-percussionista Daniel Schlett, dalle violiniste-violoncelliste Macie Stewart e Lia Kohl e dal clarinettista Jacob Daneman.
Quel che ci vuole per produrre un caleidoscopio sonoro ricco ma cristallino, profondo ma pulito.
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New Moon apre l’album con un bell’omaggio agli anni ’60, in cui una melodia pop si regge su un arrangiamento beat dai vaghi echi beatlesiani, arricchito dai riverberi della chitarra e dal tema dell’armonica armonizzato dagli archi.
Ancora più pop la ritmata Vagabond, in cui Gunn mette da parte i suoi vecchi riff in favore di un guitar work più melodico e cita nel testo l’omonimo film di Agnès Varda. Più che gradevole la linea vocale, arricchita dalle garbate armonizzazioni della Baird.
Sempre in equilibrio tra pop e folk, Chance è una garbata semiballad che strizza l’occhio ancora ai tardi anni ’60, con meno Beatles e un po’ di psichedelia in più.
L’intimista (è dedicata al padre di Gunn morto recentemente di tumore) Stonehurst Cowboy si regge benissimo su un arrangiamento minimale di chitarra e contrabasso, che incornicia una melodia vocale evocativa.
Un bel giro di chitarra acustica in fingerpicking introduce e accompagna Luciano, che si avvale di un arrangiamento jazzato, impreziosito quel che basta dalle decorazioni degli archi. Quel che ci vuole per raccontare un bel quadretto di vita quotidiana: il rapporto tra un negoziante e il suo gatto.
Gli echi psichedelici dei tardi ’60 riemergono in New Familiar (come non riconoscere lo zampino dei Byrds nelle sonorità delle chitarre, garbatamente elettriche e panciute quel che basta?).
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Le medesime influenze sessantiane si ripetono in Lightining Field, in cui si segnala l’ottimo intreccio tra le sonorità elettriche e acustiche. La definizione art rock è più che azzeccata per questo brano, che tra l’altro si ispira all’installazione permanente dell’artista Walter De Maria nel deserto del New Mexico.
Decisamente più folk, Morning In Mended è un gioiellino di minimalismo per voce e chitarra, arpeggiata come Cristo comanda e con l’ausilio di un leggerissimo riverbero.
Ma il meglio sta alla fine, come il famoso boccone del prete. Chiude la bellissima Paranoid, una ballata pop in cui Lennon e Van Morrison si danno la mano nel segno della psichedelia d’annata.
Il grande passato di certo rock rivive senza nostalgie grazie all’approccio maturo con cui Steve Gunn riesce a risvegliare i suoni d’epoca senza finire nella trappola del vintage.
The Unseen In Between non è proprio roba da fricchettoni nostalgici. È solo grande pop. E scusate se è poco.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale di Steve Gunn
Da ascoltare (e da vedere):
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