Il nuotatore: lo spirito inquieto dei Massimo Volume
La storica band bolognese torna con un gioiello art rock che mescola musica e letteratura, si ispira ai racconti di Cheever e cita Dostoevskij e Nietzsche
La provincia italiana è profonda. Come e più dell’America diseredata dei racconti di John Cheever.
E i bolognesi Massimo Volume lo sanno bene: per questo hanno deciso di intitolare il loro ultimo album a una novella del grande scrittore statunitense.
Il nuotatore, terzo album dalla reunion del 2008, è stato pubblicato da 42 Records a ridosso del Festival di Sanremo. Una sfida al mainstream? Uno schiaffo in faccia all’icona del pop tricolore? Anche. Ma c’è da dire che i Massimo Volume non hanno bisogno di queste sfide: forti di un pubblico fedelissimo, che ne segue le evoluzioni artistiche sin dai lontani ’90 e di una creatività che li ha resi un marchio di qualità della scena indipendente, sanno benissimo che le loro uscite non lasciano indifferenti gli addetti ai lavori e le platee degli appassionati, a cui si rivolgono senza troppi clamori.
E, a proposito di mancanza di clamori, c’è da dire che Il nuotatore ripresenta le tipiche sonorità del gruppo in chiave più minimale.
Di sicuro può aver influito in questa direzione l’abbandono del chitarrista-polistrumentista Stefano Pilia, in forza a vari progetti tra cui gli Afterhours, in seguito al quale la band è diventata un trio, costituito dal nucleo storico: il bassista-vocalist Emidio Clementi detto Mimì, la batterista Vittoria Burattini e il chitarrista Egle Sommacal.
Ma senz’altro ha pesato anche la scelta di far parlare il più possibile i testi, recitati con l’enfasi di sempre da Clementi e dedicati a nove piccole storie di vita dai forti contenuti esistenziali. Intendiamoci: i volumi e le masse sonore sono quelli che hanno reso unico l’alt rock dei bolognesi, ma sembra quasi che la band abbia preferito dilatare le atmosfere per marcare meglio l’altra sua peculiarità, cioè l’uso di forme espressive più letterarie che poetiche, che trasfigurano i racconti in piccole perle d’arte postmoderna.
Racconti quotidiani? In buona parte sì, ma il problema non è il racconto in sé, ma chi lo racconta e come.
Ma di sicuro non è quotidiana né banale la storia di Una voce a Orlando, che prende spunto da due episodi legati al terrorismo: la strage del night club Pulse di Orlando (appunto) e l’uccisione di un’italiana in Oriente. La politica non c’entra, perché Clementi e sodali si concentrano sui riflessi esistenziali: il coraggio del poliziotto di colore che prende in pugno la situazione e il terrore del marito dell’uccisa, che si nasconde in un cespuglio. Due antitesi umane efficacemente tratteggiate in pochi, bellissimi, versi sciolti:
«Scusami Amore se non era mia/La voce ad Orlando, nel buio/Sicura, che grida:/Avanti signori/Il corpo dietro al mio/Se un colpo parte/Tranquilli/Me lo becco io».
E, a proposito di riferimenti colti, non si può proprio non notare la chiosa suggestiva con cui, sul sottofondo della tempesta elettrica degli strumenti, Clementi parafrasa Eliot e Pound:
«Scusami Amore, ma che c’entro io/Se il mondo cede in un lampo/E non con uno schianto ma con un sospiro?».
Un’armonia ipnotica di ascendenza new wave fa da sfondo a La ditta di acqua minerale, un racconto autobiografico del vocalist in cui il vizio del Poker diventa una metafora della fortuna:
«Lui gli raccontò di una dama di cuori/E di un re di picche/Che quella notte non voleva donne attorno».
Ma se il caso determina il confine sottile tra vittoria e sconfitta (o vita e morte), la prudenza diventa una reazione protettiva, l’anticamera della paura di fronte alle scelte più grandi e – per questo – pericolose.
È la morale amara di Amica Prudenza, che inizia con un tempo cadenzato marcato dal synth su cui Clementi declama il suo inno alla paura che protegge ma appassisce:
«Amica Prudenza/Sorella dimessa/Tienimi lontano/Dai posti bui/E dalla luce che acceca».
E poi, sul crescendo serpentino marchiato a fuoco dalle distorsioni della chitarra:
«E ho imparato a naufragare/Senza perdermi nel mare/E ho scoperto che può annegare/Anche chi rinuncia a navigare».
La title track, come già anticipato, è tratta da un racconto di Cheever. Ma lo scrittore americano offre solo lo spunto, su cui il trio ricama la propria metafora sulla delusione che deriva dal contatto brusco con la realtà (o, specularmente, sul contatto brusco con la realtà che genera la delusione):
«A volte immagino il mondo/Coperto da un velo/Che nessuno ha il coraggio di scostare/Per vedere cosa c’è dietro/Nemmeno io volevo/Ma poi s’è alzato il vento/E quello che non osavo scoprire/Ho capito che era peggio di quello che temevo».
Il tutto declamato con angoscia su un tempo incalzante.
Un arrangiamento impregnato di psichedelia avvolge coi suoi toni acidi e rarefatti, avvolge Nostra Signora del caso, un inno al rimpianto ispirato a Dostoevskij:
«Poi guardo gli altri e/realizzo che/Alla festa dove tutti brindano/Avrebbe potuto esserci spazio anche per me/Se solo tu mi avessi teso la mano/Santissima Signora del caso/E costretto a seguirti/Fosse pure con l’inganno».
I suoni gracchianti e le citazioni noise di L’ultima notte del mondo commentano una serie gustosa di nonsense, in cui i buoni e i cattivi della cultura (Chopin, Elroy, Lugosi, Von Masoch) si scambiano le parti per lanciare una metafora micidiale sulla perdita di senso e sulla morte della creatività che seguirebbero alla fine del male e del buio:
«Qualcuno pare l’abbia già detto/Che senza il buio e il male/Il mondo non sarebbe più lo stesso/Tutto diventerà fatuo e carino/Decoreremo mobili e monili/Costruiremo piste ciclabili/Da Palermo fino a Dublino».
Già:
«Pare che stanotte non ci sia verso di tornare indietro/O coprire la Terra con un telo/Così da domani cominceremo tutti ad appassire/Sazi e gentili/Come giacinti nel mese d’aprile».
Più rilassata e suggestiva, Fred è ispirata da Il demone di Nietzsche, la biografia dedicata da Stefan Zweig al grande filosofo tedesco e racconta una giornata immaginaria del pensatore a Venezia, durante i suo soggiorni italiani con toni ironici e riflessioni profonde:
«Il Lido è umido/Ma non c’è polvere/Il mare è mare/Ma non c’è ombra/E a te piace l’ombra/Non è vero, Fred?».
Mia madre & la morte del generale Sanjurjo è un’altra riflessione esistenziale in cui le vicende biografiche di Clementi si mescolano con la storia del generale spagnolo nazionalista José Sanjurjo, morto in un incidente aereo a dir poco bizzarro, provocato dall’eccessivo peso delle uniformi, delle insegne e delle decorazioni che l’alto ufficiale si era ostinato a caricare a bordo di un aereo troppo piccolo.
È l’ossessione del decoro e dell’ordine che ispira i borghesi (piccoli piccoli, per citare Monicelli) ma si tramuta in beffa nei riguardi dei potenti:
«Si alzò in volo/Con la grazia/Di un uccello/Poi di colpo/Precipitò dritto in fondo al mare/Per colpa della vanità/Di quell’uomo/Che voleva salire al trono/Come si conviene a un generale».
E ancora:
«Mia madre l’ha sempre sostenuto:/Andare in giro col culo profumato/È il solo modo di farsi rispettare/Per chi nella vita/Non è nato fortunato».
La conclusiva Vedremo domani è la parafrasi di una poesia di Milo De Angelis, che diventa la metafora della propensione umana ad autogiustificarsi:
«Vedremo domani/Se il momento era giusto/Per chiudere gli occhi/O sparare nel mucchio.
Domani Sapremo/Quello che oggi ci sfugge/Il senso nascosto/di certe scelte assurde».
Sono tornati, i Massimo Volume. E portano di nuovo con sé quella carica corrosiva dei primi anni ’90, con meno rabbia e più maturità. Un elogio del disincanto in cui il gusto della trasgressione non è venuto meno. Cerebrale e stimolante, Il Nuotatore è un tuffo nella letteratura postmoderna: un album da ascoltare con gli occhi e leggere col cuore.
Per saperne di più:
Il sito web dei Massimo Volume
Da ascoltare:
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