L’Utopia di Bjork: la regina del pop sperimentale è diventata un elfo
Nono album solista dell’artista finlandese, ancora una volta accompagnata dal producer d’avanguardia Arca
Bjork è sempre Bjork. Anche (forse ancor di più) sotto le non troppo mentite spoglie di elfo post new age.
Utopia (One Little Indian Records, 2017), nono album solista dell’artista finlandese, ci ricorda, sin dalla copertina in cui posa truccata in maniera irriconoscibile (parrebbe che la mise simboleggi il sesso femminile) con un flauto, che la raffinatissima ed eccentrica popstar degli anni ’90 non c’è più, che i tempi del burrascoso sodalizio artistico con Lars von Trier sono remoti.
La Bjork (nuova? O è quella di sempre e siamo noi che non riusciamo a capirla?) che emerge dalle 15 canzoni di questo album, circa un’ora e mezza di suoni rarefatti e di armonie molto libere, prosegue il discorso nato dal legame artistico con Arca, al secolo Alejandro Ghersi, tormentato e ipercreativo musicista-produttore-deejay, col quale la folletta di Reykjavik aveva creato il precedente Vulnicura (2015).
Quest’ultimo, carico di sonorità oscure, ha raccontato la cantante, era l’inferno. Utopia, invece, dovrebbe essere la redenzione. L’amore ritrovato. È così?
Forse. Certo è che le sonorità dell’album avvolgono e frastornano allo stesso tempo. Perché questi suoni dilatati riescono a contenere di tutto: influssi di world music, ambient, anche piuttosto estrema, cenni new age (tranquilli: parliamo solo di sound…) e field recording, realizzato dalla cantante e dal suo sodale. Tant’è che le etichette di folktronica e avant-garde, stanno piuttosto strette a Utopia, sebbene il folk faccia più che capolino, grazie anche alla presenza, campionata e rimanipolata alla grande dei tenores sardi.
È proprio il caso di esaminare questo album canzone per canzone? Proprio no: i brani, introdotti spesso da suoni campionati, come i cinguettii degli uccellini di Arisen My Senses, fluiscono l’uno nell’altro, come tante parti di un unico flusso sonoro. Se è concept, Utopia lo è anche grazie a questa compattezza.
Parlare di singoli, in questo caso, è un azzardo: Blissing Me e The Gate, che hanno anticipato l’uscita del cd, sono serviti più a far capire al pubblico la scelta stilistica di Bjork che non a scalare classifiche di gradimento. E sì che la finlandese non ha mai ecceduto in appeal commerciale. Ma ora, la regina del pop sperimentale ha mollato il pop per dedicarsi alla sperimentazione,
Una sperimentazione interpretata con buon gusto melodico, anche nei momenti più arditi, ad esempio i quasi dieci minuti di Body Memory, in cui l’orchestrazione complessa di flauti, archi, bass-drum ipercampionati e field recording ideata da Arca crea un effetto straniante.
Un’isola piena di colori, piante, animali e uccellini cinguettanti, come l’ha definita l’artista. Benvenuti nell’Utopia di Bjork, nella quale si fondono con dosaggi particolari slanci sentimentali e pulsioni ecologiste.
L’importante è comunque saperne uscire.
Da ascoltare (e da vedere):
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