The Groove Cubed, un virtuosismo tutto da… ballare
Un crossover incredibile di jazz, funky, rock, anche duro. La fusion 2.0 secondo i Rock Candy Funky Party, il supergruppo di Joe Bonamassa
Virtuosismi da sballo. E, visto che si parla di funky, da ballo. Quasi interamente strumentale, The Groove Cubed (J&R Adventures, 2017) è il terzo album dei Rock Candy Funk Party, il supergruppo fondato e guidato dal batterista-produttore-compositore Tal Bergman, session man di lusso e autore di colonne sonore, di cui fanno parte Ron De Jesus, chitarrista dai tocchi latin e mago del ritmo, Mike Merritt, bassista e contrabbassista jazz di fama mondiale, il tastierista brasiliano Renato Neto, superbo sui tasti di avorio quanto lo è il suo omonimo connazionale col pallone, e, dulcis in fundo, Joe Bonamassa, il nuovo virtuoso del rock blues.
Il risultato dell’unione di questi talenti (per usare un eufemismo…) è un caleidoscopio di ritmi e di suoni, concepito con gran gusto ed eseguito con un tiro pazzesco, al punto che anche l’espressione groove, sotto le dita di questo quintetto, suona leggerina.
I Nostri si divertono e divertono alla grande l’ascoltatore, travolgendolo con una ritmica serrata e incalzante su cui Bonamassa duella a suon di slide con Neto, abilissimo a rievocare suoni e atmosfere anni ’70 grazie all’uso sapiente del piano elettrico e del clavinet.
The Groove Cubed parte con le atmosfere un po’ notturne di Gothic Orleans ed esplode subito con il funky martellante, basso in battere e percussioni in levare, di Drunk on Bourbon on Buorbon Street.
In the Groove, invece, è una bella lezione di fusion anni ’70, che con i suoi stop and go e il sontuoso tema del bridge ricorda alcune cose dei Return to Forever.
Con Don’t Even try it, uno dei due brani cantati e singolo di lancio dell’album, i Rock Candy virano verso il funky soul, grazie anche alla prestazione superba di Ty Tylor, storico cantante dei Vintage Trouble.
Two Guys and Stanley Kubrick Walk into a jazz club è un bel pezzo dal ritmo un po’ più cadenzato e carico di colori notturni, che si caratterizza per il contrasto tra il tema minimale e il bridge tosto, eseguito all’unisono da chitarre e tastiere a palla.
Dopo il breve interludio rappato (già: solo gli snob detestano l’hip hop nei contesti funky) di Isle of Wight Brothers, i Nostri si lanciano nei controtempi sofisticati di Mr. Space: un dedalo di sonorità seventies, col basso rotondissimo di Merritt in evidenza e i bei cluster di piano elettrico che decorano le armonizzazioni al wha wha dei chitarristi. Belli anche gli stacchi, che rallentano e addolciscono prima della ripartenza tutta groove, che fa leva su uno scatenatissimo walking bass.
Di nuovo soul con I Got the Feeling, cover del classicone di James Brown, a cui presta la sua voce squillante l’australiana Mahalia Barnes.
Atmosfere più rilassate in After Hours, mentre This Tune should run for President è un divertissment che ricorda un po’ le escursioni fusion di Stanley Clarke.
Il rush finale dell’album inizia con le percussioni tribali di Mr. Funkadamus returns and He is mad, si evolve nei ritmi cadenzati di Funk-o-potamia, altro saggio di bravura alla Chick Corea, esplode nelle scansioni dure di The Token Ballad, in cui la chitarra di Bonamassa si esibisce in incendiarie sonorità hard, e termina con lo swing scatenato di Ping Pong, l’unico brano in cui i Nostri prediligono sonorità pulite e quasi acustiche.
Da ascoltare con tutto il corpo e con il cuore, The Groove Cubed è un entusiasmante esempio di crossover.
Inutile dire ai Rock Candy Funk Party continuate così: fanno benissimo quel che fanno da tutta una vita.
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