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Tunguska, un’esplosione rock dei redivivi Treat

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Le vecchie glorie dell’hard scandinavo tornano con dodici brani griffati e suonati con gran classe

Basta avere l’età per aver letto qualche fumetto di Martin Mystère o, più prosaicamente, qualcuna delle numerose pubblicazioni dedicate ai casi misteriosi della storia. E, se tutto questo non bastasse, sarebbe comunque sufficiente un giro su Google per sapere che Tungsuka è la località siberiana devastata nel 1908 da un’esplosione enorme, dalle cause mai chiarite e perciò oggetto di speculazioni varie, che vanno dall’esplosione nucleare prima dei tempi all’impatto di un meteorite.

I Treat al completo

Siamo alla fantascienza.

Ma Tunguska è anche il titolo dell’ottavo album degli svedesi Treat, il terzo dalla reunion del 2006, uscito di recente per la Frontiers e prodotto dallo storico chitarrista-fondatore Andres Wikstrom e da Peter Mansson. E, in effetti, qualcosa di fantastico nelle dodici tracce di quest’album (tredici nell’edizione giapponese) c’è: la band svedese ha pochi segni di vecchiaia, tutti estetici e denunciati impietosamente dalle foto, ma per il resto l’album è di una freschezza assoluta, sia a livello musicale sia a livello tecnico.

Gli anni ’80, in cui la band scandinava apriva per i Kiss e Dave Lee Roth e otteneva buoni riscontri con Organized Crime (1989), sono lontani per tutti tranne per loro, che sono riusciti a rinverdire la loro ricetta musicale, un hard rock melodico che sconfina piacevolmente nell’aor, in maniera convincente. Tant’è, per restare alle latitudini artiche, che non è un azzardo dire che i Treat di oggi suonano come suonerebbero gli Europe se questi ultimi non avessero abbandonato i tormentoni ottantiani per virare sull’hard alla Rainbow.

La copertina di Tunguska

Il sound dei Treat è duro-ma-non-troppo, griffato e brillante e impreziosito da virtuosismi che non guastano mai.

Notevolissime le prestazioni di Wilkstrom e dell’altro fondatore, il cantante Robert Emlund, a cui l’età sembra aver fatto qualche danno solo a livello di rughe.

Ma ottime anche le performance del tastierista Patrick Appelgren, che riempie il suono senza diluirlo e, qui e lì, si lascia andare a scorribande soliste alla Don Airey, e della sezione ritmica, costituita dal batterista Jamie Borger e dal bassista Nalle Pahlsson: un duo a prova di metronomo e capace di quella potenza che basta per ricordare che, radiofonici o meno, i Treat sono una rock band seria.

Tunguska parte, anzi esplode, con una citazione: l’intro strumentale tastieristica dell’open track Progenitors, che ricorda alcune cose di Alan Parson (il quale non a caso compose Return To Tunguska). Ma è solo roba di un minuto, perché il brano evolve su un tempo robusto tempo cadenzato e marcato da un massiccio riff di chitarra che incornicia la melodia epica del refrain. Da manuale l’assolo di Wilkstrom, che si concede dei passaggi jazzati.

Con Always Have, Always Will, i Treat si lanciano in un’operazione nostalgia rivolta ai loro anni ’80: il brano sembra, anzi è, la versione moderna del pop metal di allora, con riferimenti sfacciatissimi ai citati Europe e ai Bon Jovi di 7.800° Fahrenheit.

Decisamente più dura, Best Of Enemies è un bell’esempio di hard rock melodico, suonato in crescendo con un bel riffing sostenuto e un cantato evocativo.

Notevole l’equilibrio tra riffing duro e refrain melodico in Rose Of Jericho, in cui Applegreen si scatena ai synth con ottimi effetti orchestrali. Ottimo e virtuosistico l’assolo di Wilkstrom.

Hearthmath City è forse il brano più americaneggiante dell’album e non è un’esagerazione tentare qualche parallelo con i Van Halen dell’era Hagar.

Se non fosse per la raffinatezza degli arrangiamenti, che riescono a dare un tocco epico senza scadere nella pomposità, Creep, coi suoi tempi veloci, sarebbe un bell’esempio di heavy metal, in cui l’ottimo Wilkstrom si diverte a dare lezioni di tecnica alle nuove leve della chitarra.

Ancora nostalgie degli ’80 in Build The Love, che potrebbe far parte benissimo della colonna sonora dei ricordi, grazie a un refrain melodico e a un coro ultraruffiano.

In Man Overboard, i Treat si divertono a giocare coi cambi di tempo e di dinamiche, sovrapponendo a un giro di basso lineare ed efficacissimo un riff pesante e atmosfere orientaleggianti. Degno di nota il duello tra tastiere e chitarra, a suon di fraseggi arabescati.

Riptide è un hard rock melodico tosto ed efficace, che si regge sul piacevole contrasto tra il refrain arioso e la ritmica massiccia.

Non può esserci aor senza lenti e, visto che ci siamo, senza qualche richiamo nostalgico. Alla bisogna provvede Tomorrow Never Comes, una ballad dai toni tristi e dal cantato possente.

All Bets Are Off spacca con un riff decisamente heavy e si sviluppa su un ritmo martellante. Il tutto è impreziosito da un altro duetto chitarra-tastiere, stavolta dai toni fusion.

Chiude l’epica Undefeated, tutta giocata su un refrain possente e un coro evocativo, con un bel riffing a legare il tutto.

Come già accennato, nell’edizione giapponese è inclusa una bonus track: la versione acustica di Tomorrow Never Comes, in cui Wilkstrom inserisce passaggi flamenco nei tappeti di synth, piano e archi.

Su Tunguska è più o meno tutto, con la consapevolezza che l’ultima parola spetta all’ascoltatore.

I Treat sul palco

I Treat sono l’ennesima prova che gli anni ’80, verso i quali molti millennials mostrano la stessa attrazione che i loro genitori o zii provavano verso i ’60, più che un’epoca sono un sentimento. Per la precisione, il sentimento dell’ottimismo perduto, che la band svedese fa trapelare da ogni nota.

Se tutto questo sia il frutto dell’internet revival, che grazie all’eternità mediatica ha resuscitato periodi e mode culturali altrimenti spacciate, è da vedere.

Un’altra immagine dei Treat

Dal nostro modesto punto di vista, il risveglio di queste vecchie glorie, capaci ancora di suonare ed emozionare alla grande, è tutt’altro che un male: il mondo è grande e non è detto che vi abbiano diritti solo gli innovatori.

Già: anche i professionisti maturi e talentuosi come i Treat hanno ancora molto da dire. E la macchina del tempo è pur sempre un veicolo capace di portare altrove e far sognare. Solo di questo ci sarebbe da esser grati.

Da ascoltare (e da vedere):

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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