Breach, ovvero: le sperimentazioni trasgressive dei Polemica
Il secondo album del quartetto italo-americano è un caleidoscopio di suoni estremi e armonie sofisticate. Un esempio di indie rock cerebrale e innovativo
Il titolo è un programma: Breach, infatti, vuol dire infrazione. Ma è un programma anche il nome della band che ha autoprodotto quest’album dopo averlo finanziato con un intenso crowfundig: Polemica, che non ha bisogno di spiegazioni.
Battute a parte, si può dire che questo quartetto è una sorta di multinazionale della scena indipendente, che trita di tutto al punto che solo con una certa approssimazione se ne può definire il genere come indie o alternative rock.
Basta un’occhiata veloce alle biografie dei singoli musicisti per capire come da tante esperienze eterodosse e assai variegate difficilmente possa sortire un esito che non sia sperimentale e sfuggente. Così è stato per Keep Your Laws Off My Mind il loro album d’esordio, anch’esso autoprodotto, del 2016, così è per Brench, inciso nel 2017 non appena finito il tour di promozione.
La vocalist Hilary Binder è una figura di primo piano e di grande esperienza della scena punk internazionale. Americana di Washington, la Binder ha esordito come batterista nella scena punk della capitale statunitense e poi si è affermata anche come cantante. Da Washington si trasferisce, a cavallo tra gli ’80 e i ’90, nella Bay Area, in particolare nella vivissima San Francisco, dove dà vita a vari progetti, tra cui i Sabot, un duo seminale costituito assieme al bassista Christopher Rankin e nato dalla scissione dei Foretought, di cui i due artisti erano la sezione ritmica.
Dagli Usa i Sabot si trasferiscono nella Repubblica Ceca e da lì si spostano in tutta Europa, tra concerti e incisioni. Attualmente la Binder fa parte di Kačkala, una band vocale femminile ceca, e di Riot, un trio sperimentale in cui suona la batteria.
Dai Riot proviene anche il bassista-cantante Giulio Marino, che vanta esperienze in vari generi e progetti, tra cui Materiale Resistente e Disorchestra.
Altrettanto proteiforme l’attività di Vincenzo Vik Di Santo, batterista-polistrumentista e occasionalmente cantante. Di Santo, infatti, è docente di batteria, session man per numerosi artisti e membro in pianta stabile di diverse band, tra cui Suricates e Aforisma.
Il gusto della sperimentazione non manca neppure al chitarrista-tastierista-cantante Zilvio, che proviene dai Lady Malferma e dai Crazy Children e milita nel trio noise White Russia.
Dopo questa lunga presentazione veniamo a quel caleidoscopio di suoni trasgressivi ed eterodossi che è Breach.
A Walk In A Park apre l’album con un micidiale poliritmo, che ruota attorno al riff secco e vagamente reggae della chitarra e le linee pazzesche del basso che danza sui tempi dispari della batteria, ora con un andamento funky tutto slap e ora con timbriche distorte. Valido anche il lavoro di Zilvio che si diverte a far fischiare la chitarra con risultati che ricordano il Tom Morello degli anni d’oro dei Rage Against The Machine. Duttilissima, al limite del camaleontismo la prestazione della Binder, che interpreta la melodia stralunata del brano al limite della forzatura tonale e poi si lancia in parti declamate che tuttavia non scadono nel rap.
Come inizio non c’è affatto male.
Non è da meno la seguente The Bell, che attacca con un cadenzato crossover, rallenta in un refrain più melodico e poi evolve in un crescendo funkeggiante.
Nonostante le apparenze caotiche, Passenger On The Ghostship rivela un’architettura complessa e validissima: l’attacco e il refrain sono vagamente swingati e crescono in un bridge e in un coro tendenti allo ska.
Man’s Privilege è il brano più normale o quasi: l’attacco e il refrain sono hardcore metal, ma il coro spezza tutto con un controtempo e un giro di basso che ricordano i Primus.
Cadenzata ma piena di dinamismo, Psychopath Mind si snoda su una melodia malata, interpretata dalle distorsioni panciute e sferraglianti di Zilvio.
Silly Me è un brano potente che si sviluppa su un giro di basso che cita in maniera sfacciata Flea dei Red Hot Chili Peppers ed esplode in un coro melodico e un po’ epico.
Qualche riferimento alla new wave ottantiana fa capolino nell’atmosferica e più minimale Morning Fight.
Need More Time è variegatissima ma si ancora anch’essa alla new wave: se non fosse per la timbrica chiara e squillante della Binder si potrebbe pensare a una versione evoluta e ultratecnica dei Bauhaus.
Con la rumorosa e schizoide title track i Polemica sconfinano nel noise (appunto…), tra le distorsioni ultradissonanti e le ritmiche folli si fa largo il cantato straniante della vocalist che invoca: Breach the silence (infrangi il silenzio…).
Chiude la folle Welcome To The Show, che rievoca con perfetta circolarità l’open track, di cui riprende il refrain distorcendolo.
Breach è una prova superba, soprattutto a livello musicale, ma anche i contenuti dei testi, curati dall’eccentrica e poliedrica vocalist, non sono male: si va dalle tematiche esistenziali ai racconti bizzarri, degno contraltare poetico all’artwork curato dall’americana Dana Smith.
Consigliare l’ascolto è il minimo, perché artisti dal livello così alto ma dall’orgoglio underground altrettanto pronunciato devono essere incoraggiati a produrre il più possibile. Forse non saranno mai delle star, ma senza i Polemica il rock sarebbe davvero meno ricco.
Da ascoltare (e da vedere…):
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