Oblivion, il rientro in grande dei papà del gothic metal teutonico
Tredici brani di impatto per il quattordicesimo album dei Crematory, che confermano la loro ispirazione a dispetto della crisi
Testardi, metodici, coerenti ma non chiusi all’evoluzione. In una parola, teutonici. I Crematory, band di rilievo della scena metal europea, tornano al pubblico con Oblivion, il loro quattordicesimo album in diciotto anni di carriera, dedicata alle sonorità gothic e senza disdegnare alcuni stimoli danzerecci della scena germanica (avete presente il tanz metal dei Ramnestein? Ecco…).
Da questo punto di vista, il loro nuovo album non delude, anzi: la formula del sestetto crucco è riproposta in maniera smagliante, fortificata più che appesantita dalla non poca esperienza accumulata.
Sì, la formula melodica, basata sul contrasto tra la voce growl di Gerhard Felix Stass e quella pulita e a tratti ipermelodica del chitarrista Tosse Bastler (nella band dal 2015 assieme al chitarrista solista Rolf Munkes) è quella di sempre. Anche il contrasto tra il riffing trash e le atmosfere elettroniche sapientemente dosate dalle tastiere di Katrin Jullic è nel solco della tradizione, così come la possente ritmica costituita dal batterista Markus Jullic e dal bassista Jason Matthias, l’acquisto più recente del gruppo (2016).
In altre parole, i tredici brani di Oblivion, uscito in primavera per la storica Nuclear Blast, non aggiungono molto a quel che i Crematory hanno prodotto durante la loro carriera, ma propone in maniera smagliante il meglio del gruppo.
Non a caso l’album scorre che è un piacere. Si parte con Expectation, una intro breve e suggestiva, e si entra subito nel bel mezzo della danza con Salvation, il singolo apripista, un tanz-goth-metal da manuale che sintetizza con efficacia la formula musicale della band.
Più dura, la successiva Ghost Of The Past si regge tutta su una ritmica martellante e riff in stile death, appena diluiti dai flash dei sintetizzatori.
Until The Dawn è il brano più vario della raccolta: parte con un movimento di archi, si sviluppa su ritmiche trash piene di cambi di tempo e di stop and go e col consueto binomio vocale growl-melodia ed esplode in un bell’assolo di Munkes.
Introdotta da un efficace arpeggio di piano, Revenge Is Mine è un altro esempio di metal ballabile, pieno di cambi di atmosfera.
A dispetto del growl cupo di Stass, presente in abbondanza, Wrong Side rievoca atmosfere e sonorità anni ’80, grazie a un leggero passo indietro del muro chitarristico a favore dell’elettronica. Il risultato, a dirla tutta, non dispiace.
Stay With Me, in cui il growl manca, risulta il brano più leggero: è quasi un aor dalle tinte heavy accentuate. D’altronde, non poteva essere altrimenti per l’unica canzone d’amore dell’album. Certo è, che il verso «Stay with me/My Love» suona quantomeno curioso nel repertorio di una band dal nome più che macabro…
Giocata tra il trash e il black con significative aperture melodiche, For All Of Us è un altro esempio significativo della versatilità dei Crematory.
Con la ritmica cadenzata di Immortal, in cui il sequencer si alterna al riffing pesante, i sei tedeschi invitano di nuovo a ballare (o a pogare, se preferite).
Ancora il consueto mix thrash-elettronica (e melodia-growl) nella title track. Cemetery Stillness è un pezzone gotico e durissimo, pieno di cambi di tempo decisi e di atmosfere inquietanti.
Blessed è una riuscita incursione nel death. Chiude l’album la cupa Demon Inside, dai toni doom e dal ritmo danzereccio.
In una recente intervista Markus Jullic ha lamentato il calo di vendite della band e, non senza ironia, ha minacciato il rischio che i Crematory si sciolgano. Ovviamente, speriamo che ciò non avvenga, perché Oblivion ci consegna una band in piena forma e capace ancora di dare molto. Val la pena di ascoltarli e di sostenerli. Il rock sarebbe più povero senza gruppi come loro.
Da ascoltare (e da vedere):
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