Concerto veneziano per natura su nastro
Dall’elettronica e dai loop al field recording. La sperimentazione analogica e ultracolta di Alessandro Ragazzo
Il look è tipico dei patiti dei maghi del pc che si dedicano alla musica: rasatura alzo zero, piercing e tatuaggi. Le influenze, non solo musicali, sono piuttosto alte: Alessandro Ragazzo, veneziano (anzi, mestrense) classe ’80, mescola ascolti di avanguardia con autori romantici e filosofi contemporanei. Ascoltatore e lettore onnivoro, ispira i propri esperimenti di field recording alla poetica di Novalis e Buchner e non disdegna Deleuze. La carne a cuocere c’è. Ed è alla seconda portata. La prima Ragazzo l’ha servita nel 2014, con Strati, l’album d’esordio con cui ha letteralmente dato voce alla natura attraverso il field recording (ne è un esempio il suo Concerto per piantine). La seconda è prossima ad essere sfornata.
Già: il 2017 per il giovane artista veneto si annuncia bene: Terra d’ombra, il suo nuovo album sta per uscire con la label torinese Setola di maiale e, contemporaneamente, sta per essere pubblicato Solchi Sperimentali Italia, il doppio dvd dedicato dal critico Antonello Cresti alla scena underground italiana a cui Ragazzo partecipa con un suo contributo.
Com’è avvenuta la tua partecipazione a Solchi Sperimentali Italia?
Come tante cose importanti: quasi per caso. Ero a Torino per effettuare delle sonorizzazioni e un conoscente mi ha parlato di questa iniziativa. Io ho subito contattato Antonello Cresti ed eccomi a bordo. Partecipo al progetto con tre contributi: un breve brano inedito, una rapida autointervista e un frammento di esibizione dal vivo. In pratica ci sono caduto dentro ed è stato un bene: reputo Solchi Sperimentali Italia un’operazione importante, perché aperta, inclusiva e sganciata dalle logiche tribali che un po’ alterano la scena underground.
Dedicarsi alla sperimentazione pura, che nel tuo caso si basa più sulla ricerca sonora che sulla musica in senso stretto, non è proprio facilissimo. Com’è iniziato il tuo percorso?
Ho iniziato piuttosto presto, nel ’94.
L’anno zero, in termini di tecnologia.
Direi di sì. Allora ci si arrangiava con il poco che offriva il convento. Assieme a degli amici lavoravamo in garage con i nastri in acetato, le doppie piastre di registrazione, i mixer ecc. Era un lavoro essenzialmente di cut up e cucitura sonora. Poi, a fine anni ’90 sono passato al pc e ricordo quasi con affetto quei programmi di missaggio e assemblaggio musicale che giravano in ms-dos. Se i nastri furono il big bang, quei pc erano la preistoria.
E che caverne frequentavi?
Di tutto. Soprattutto parecchia di quell’elettronica (techno, trance, wave) che ora definisco becera.
Non è un giudizio un po’ forte?
Ti dirò: sono passato poi ad altri ascolti, non escluso il metal. Ma la mia ricerca sonora è andata piuttosto avanti.
In che direzione?
Direi la classica, non solo europea, e la contemporanea.
Che tipo di musica classica non europea?
Quella orientale: in particolare mi affascinano la musica mongola e ottomana, sia per la loro particolare strumentazione, sia per la peculiare concezione armonica, che a tratti somiglia moltissimo alla nostra dodecafonia.
Però da questo onnivoro cut up, analogico e digitale, sei tornato a una concezione più acustica, sebbene, nel tuo caso questa definizione sia impropria.
Uno non può dedicarsi ai loop tutta la vita. E così, dopo un’intensa attività, anche dal vivo, ho un po’ riflettuto sull’evoluzione che volevo dare al mio suono e sono ritornato alle origini. Il termine corretto è analogico: quindi mixer, distorsori, walkman, lettori mp3 e via discorrendo. Il field recording fa parte di questo processo.
Qualche anticipazione sul prossimo lavoro?
Riprendo il discorso che era rimasto sospeso in Strati: continuo a registrare i suoni della vita quotidiana, in particolare della natura. Il mio scopo è far emergere la quotidianità come un tutto nell’esperienza sonora.
Ma in Veneto è proponibile questo discorso?
Non è facile, perché si tratta di una realtà provinciale che, tranne Venezia, resta piuttosto piccola. Il rischio di essere fagocitati quando si propone, come tento di fare io, una produzione complessa e sofisticata è fortissimo. Perciò è necessario deterritorializzarsi. E credo che l’iniziativa di Antonello Cresti agevoli molto questo tipo di discorso glocal, senza il quale la sperimentazione non è possibile oppure è molto difficile.
Molti esponenti dell’underground lamentano la frammentazione della scena.
Che in effetti c’è e non è poca. Ormai le vecchie reti (centri sociali, fanzines ecc.) sono in riflusso e occorre un nuovo coagulo. Io provo a portare avanti un discorso inclusivo nel mio territorio e spero, quanto prima, di poter far venire Antonello qui da noi. Chissà che qualcosa non inizi a muoversi.
(a cura di Saverio Paletta)
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