Quel suono oscuro che viene dal Veneto
Dalla new wave alla sperimentazione pura, Daniele Santagiuliana racconta la sua crescita musicale in una terra difficile
Suoni cupi, note lunghe tirate all’estremo, quasi inconcepibili senza l’ausilio dei clip pieni di immagini inquietanti e di inquadrature antichizzate, a volte virate in seppia. Testing Vault, il nuovo progetto musicale di Daniele Santagiuliana, uscirà il 20 gennaio per la Looney-Tick Productions, la piccola etichetta creata dall’artista per produrre in proprio ed evitare i condizionamenti del mercato discografico, anche di quello indipendente, che comunque è mercato e a modo suo condiziona.
Santagiuliana, che vive a Valdagno, un paese del Vicentino, ha un curriculum piuttosto denso: ha collaborato a vari progetti musicali, tra cui si segnalano Teatro Satanico e Deison, tutti nel segno della sperimentazione. Non a caso, il suo nome figura in Solchi Sperimentali Italia, la recente fatica editoriale del critico toscano Antonello Cresti, dedicata appunto alla scena underground tricolore. E da qui alla partecipazione al progetto multimediale Solchi Sperimentali Italia, il passo è stato piuttosto breve.
Com’è avvenuta la tua partecipazione a Solchi Sperimentali Italia?
Considero un onore far parte di questo progetto importante. Conosco Cresti sin da quando scriveva sulle webzine ed era uno dei pochissimi a trattare con competenza le musiche altre di cui mi nutro da sempre. Quando mi ha contattato per dirmi del progetto, ho aderito con entusiasmo.
Visto che di solito sperimentare è un punto di arrivo nella vita di un musicista, puoi raccontare il percorso che ti ha portato a Testing Vault?
Io di base sono un bassista e sono partito dal dark anni ’80 e dalla new wave.
Questi due generi, a quanto ho capito, sono un punto di partenza comune a molti dei protagonisti dell’underground.
Non ho statistiche e numeri precisi al riguardo, ma direi di sì. Forse perché in questi due generi è già intrinseca la ricerca sonora e musicale. Arrivato a 19 anni, mi trovai a un bivio: secondo la mentalità veneta, un ragazzo che non va in fabbrica o nei campi non appena è maggiorenne è guardato con sospetto. Perciò decisi di correre il rischio e di giocarmi una carta importante: se fosse andata male avrei smesso con la musica. Registrai un demo tape sperimentale e lo inviai ad alcuni dei miei miti, cioè a Chris Carter e a Cosey Fanni Tutti, dei Throbbling Ghristle [storica band britannica di performer sperimentali, la cui opera ha precorso l’industrial, Nda]. Entrambi mi hanno incoraggiato a continuare. Ed eccomi qui.
Com’è la vita di un musicista sperimentale?
A livello artistico le gratificazioni non mi mancano, perché sono entrato in un circuito internazionale. A livello economico le cose cambiano, visto che si parla di redditi bassi: oscillo attorno ai 300 euro mensili. Però sono entrato in quest’ordine di idee e me ne faccio una ragione.
Ma quali sono le possibilità di fare musica in Veneto?
In realtà ce ne sono: il Veneto è nel cuore dell’Europa, perciò è facile per chi è armato di buona volontà ed è motivato anche dallo spirito di sacrificio, varcare i confini ed entrare in contatto con ambienti mitteleuropei, più sensibili dei nostri, almeno a livello musicale.
Quindi sarebbe un problema di mentalità, come a dire che il Nord sa essere profondo come e più del sud?
Sì, se la vogliamo mettere su questo piano. Io ho creato la mia label per sganciarmi, appunto, da una certa mentalità provinciale, che vede nel circuito dei pub il proprio obiettivo massimo. Non ho voluto accontentarmi e per questo ho sperimentato e studiato: ho seguito un corso di organo e ho imparato a suonare altri strumenti, quali l’harmonium, l’armonica, la viola e alcune percussioni: ho fatto di necessità virtù per esprimere le mie idee e la mia creatività al meglio. Certo, resto fedele al mio basso Ernie Ball e di recente mi sono riavvicinato ai suoni acustici, ma miro ad andare avanti.
L’ostacolo allora è la mentalità. Com’è l’attuale situazione in Veneto?
Gli stimoli e le opportunità non mancano perché negli anni si è creato un certo circuito musicale, insufficiente a livello economico, ma comunque apprezzabile per le possibilità di esibirsi e di ricevere stimoli. La crisi, c’è da aggiungere, ha messo in discussione quello stato di cose per cui noi veneti dovevamo a forza andare nei campi e nelle fabbriche per essere apprezzati. Ora mi permetto di sottolineare che molti stanno alzando la testa e iniziano a rifiutare questa mentalità coloniale: le fabbriche stanno delocalizzando senza che nessuno le fermi e l’agricoltura non è più quella di una volta. E questa crisi, che è e resta grave, ha avuto il solo pregio di aver fatto aprire gli occhi alle persone. Fare gli artisti non significherà più dichiararsi parassiti: i parassiti veri sono quelli che prima ci hanno colonizzato e poi, alla prima difficoltà, sono scappati via.
(a cura di Saverio Paletta)
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