Il viaggio della maturità. Bruce Springsteen e le stelle del West
Il Boss ha spaccato le classifiche col suo Western Stars, un concept ambientato nell’America più profonda riletta in chiave postmoderna. Niente rock, ma arrangiamenti acustici e suoni orchestrali per dipingere tredici ritratti formidabili in musica
Non ha fatto in tempo a uscire ché subito si è insediato ai vertici delle classifiche internazionali (Italia inclusa, dove ha tenuto testa ai tormentoni della bella stagione).
Di Western Stars, il diciannovesimo album di Bruce Springsteen, lanciato dalla Columbia a inizio estate, si sono praticamente sentiti in dovere di scrivere tutti o quasi, comprese le testare (è il caso De L’Internazionale o di Panorama) non proprio specializzate in musica, tantomeno in cultura rock.
Di più: persino l’edizione italiana di Rolling Stone ha messo da parte la sua frivolezza pop-modaiola e ha lanciato un bell’approfondimento sull’ultima fatica del Boss.
Troppa grazia? Suggestione indotta dall’artista illustre che, a dispetto dei suoi settant’anni d’età, ancora sforna canzoni come Cristo comanda? O, peggio ancora, il dover stare sulla notizia a tutti i costi?
C’è tutto questo. Ma c’è del’altro: Western Stars è un gran bell’album ed è tale perché è il meno Springsteen possibile. Niente enfasi retorica che sconfina nel rock tamarro da deep Amerika, niente impegno politico, neppure sussurrato.
Ma archi, orchestrazioni quasi del tutto acustiche e melodie avvincenti incorniciano testi ultrapoetici carichi di riflessioni esistenziali.
E c’è dell’altro: Western Stars è un concept doppio, testuale e musicale. È il racconto di un viaggio poetico verso ovest, in quel West non più Wild, ma postmoderno e un po’ decadente, descritto attraverso i ritratti di personaggi anonimi, spesso perdenti, in omaggio a una letteratura dell’America profonda (sì, stavolta con la “c”), che va da Kerouac a Dylan.
Ed è un viaggio musicale nel pop orchestrale e acustico degli anni ’60, forse il più adatto a colorare i ritratti.
Niente elettricità. E persino gli arrangiamenti della E Street Band sembrano un ricordo.
Ma c’è da dire che il Boss fa tutto in grande, compreso il minimalismo, e si è affidato a una serie di validi e talentuosi artisti.
Alcuni sono vecchie conoscenze, come il bassista, polistrumentista e compositore Ron Aniello, che ha collaborato con Springsteen a più riprese.
Altri lo sono ancor più: è il caso del pianista-tastierista David Sancious e del tastierista fisarmonicista Charles Giordano, legati da una lunga militanza nella E Street Band.
Stesso discorso per la violinista Soozie Tyrell.
Non poteva mancare, in questo viaggio, la consorte Patti Scialfa, che cura come di consueto gli arrangiamenti vocali.
Tutto e tutti sotto la supervisione del compositore-produttore Jon Brion.
Non manca davvero nulla per un big travel.
Il protagonista di Western Stars, non è un motociclista, forse perché, tranne rari casi, è difficile conciliare la corsa selvaggia alla Easy Rider con la riflessione esistenziale.
Ma è l’autostoppista di Hitch Hick, che inizia il viaggio con una melodia tra il cantautorale e il country accompagnata da un arpeggio essenziale del banjo, che si arricchisce pian piano degli arrangiamenti maestosi degli archi e delle inserzioni del pianoforte. Non sembra quasi, ma è un crescendo: non di potenza ma di intensità, che crea una forte suggestione.
The Wayfarer riprende la formula di minimalismo orchestrale dell’open track, grazie alla combinazione felice tra il riff leggero della chitarra e il gioco degli archi e dei fiati, che disegnano un crescendo pomposo che, finalmente, sfocia nel pop più epico e sognante della seconda metà del pezzo.
Epica e ariosa, Tucson Train sembra rievocare lo Springsteen di Born To Run: anche stavolta fiati e archi predominano, ma la base è decisamente rock. Il viaggio è meno etereo e più ritmato, come il rumore di un vecchio treno sui binari dell’Ovest profondo.
Western Stars, la title track, regala il primo personaggio importante dell’album: un ex attore, probabilmente un caratterista, che racconta della sua morte sul set di un western per mano di una star (il riferimento a John Wayne è un obbligo). Il tutto su una base countryeggiante (o countrypolitan, come direbbero i pignoli), marcata qui e lì dalla lap steel guitar che disegna atmosfere notturne.
In Sleepy Joe’s Cafe il Boss cambia genere e atmosfera. Protagonista, stavolta, è l’umanità varia e decisamente non felice che frequenta un bar nei pressi di un’autostrada. Tre minuti di racconti di vita resi in chiave tex-mex allegra ma non troppo. Perché si sa: i bar distraggono con la loro monotonia, ma le melodie più allegre non riescono a coprire la tristezza e, a modo loro, diventano malinconiche.
Niente corse, a dispetto del titolo. O meglio, una sola corsa quasi alla fine in Drive Fast (The Stuntman), in cui Springsteen racconta tra gli accordi secchi della chitarra, i ricami degli archi e i contrappunti delle tastiere (finalmente) elettriche l’amarezza di uno stuntman, con una melodia a volte amara e a volte epica. Una bellissima parafrasi del sogno americano, che diventa una strada piena di rischi in cui il successo è tutt’altro che assicurato.
La magniloquente Chasin’ Wild Horses è un altro omaggio al West, che stavolta richiama quello immortalato dal cinema, con una melodia struggente che oscilla tra il country minimale marcato dalla slide guitar e orchestrazioni epiche dal sapore morriconiano.
Le atmosfere si fanno più sognanti nell’ariosa Sundwon, in cui il pomposo arrangiamento orchestrale disegna un omaggio sentito al tramonto. Quello che rende visibili le stelle dell’ovest.
Ma non si può viaggiare a ovest senza tornare al country e alla sua patria. Nessuna meraviglia, allora, che Somewhere North Of Nashville omaggi nella maniera più tradizionale, con un canto malinconico e un semplice arpeggio di chitarra acustica, il genere musicale più americano. Il tutto in un minuto e mezzo di pura suggestione dai colori notturni.
Ma il West non è solo notte e malinconia. È anche epica, che rende a tinte forti ogni racconto, persino quello apparentemente banale di un amore finito. Come nella potentissima Stones, tutta orchestra e magniloquenza che culmina nei due begli assoli di violino e chitarra che marcano le battute finali.
Di nuovo pop, orchestra e sogni in There Goes My Miracle, in cui il Boss rifà il verso ai crooners e tenta qualche nota in falsetto.
Ma il viaggio notturno, in auto e sotto le stelle dell’Ovest torna delicato e suggestivo in Hello Sunshine, in cui la slide guitar e i violini salutano il sole che si prepara a sorgere di nuovo.
Il viaggio springsteeniano nel West postmoderno termina con la malinconica Moonlight Motel, in cui la chitarra acustica e gli archi raccontano con dolcezza dei ricordi affogati nel Jack Daniels.
In Western Stars ci sono il country e il folk – che tra l’altro hanno influenzato il cantautore del New Jersey ben più del blues – ma non la protesta sociale.
C’è di sicuro la riflessione esistenziale del passaggio tra la maturità e la terza età. E c’è un anelito insopprimibile di libertà, simboleggiato con efficacia dallo stallone ritratto in copertina.
Inutile cercare paragoni col passato: Springsteen ha voluto tentare qualcosa di diverso (dire nuovo sarebbe troppo…) e ha fatto centro. Resta da capire se quest’album, che ha avuto un successo meritatissimo, sia un capitolo a sé nella produzione del Boss o l’inizio di una riflessione nuova.
Nel dubbio ascoltiamolo a fondo più volte: vale davvero.
Per saperne di più:
Il principale sito web italiano su Bruce Springsteen
Il più grande fansite italiano su Bruce Springsteen
Da ascoltare (e da vedere):
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