Un ritorno con classe per i White Lies
Five, l’ultimo album del trio londinese, dà l’occasione per riflettere su una lunga carriera nel segno della nostalgia degli anni ’80 più tenebrosi e profondi, tra echi dei Cure e omaggi agli Editors
I White Lies, tornano sulle scene col loro recente Five, uscito a febbraio per Pias Reconding. Il titolo non è un caso, perché il trio londinese taglia il traguardo del quinto album e conferma il proprio stile intriso di sfumature anni ’80, marcato dall’uso, piuttosto invasivo, del sintetizzatore. Il tutto ben amalgamato con un songwriting moderno.
I tre si incontrano ai tempi del liceo e suonano assieme nei Fear Of Flyng, la prima incarnazione dell’attuale progetto. E infatti, la loro formazione è quella attuale, composta da Harry McVeigh (voce, chitarra ritmica, tastiere), Charles Cave (basso, voce e principale songwriter) e Jack Lawrence Brown (batteria). A loro si aggiungerà in seguito il tastierista Tommy Bowen, che si esibirà solo in concerto.
Dopo un tour nel Regno Unito insieme a Maccabees, Jamiet e Laura Marlin e due singoli per un’etichetta indipendente, i tre studenti inglesi decidono di mollare l’università per dedicarsi ai White Lies.
La nuova band esordisce dal vivo il 22 Febbraio 2008, dopo un paio di mesi di prove. Pochi giorni dopo firmano un contratto con l’etichetta discografica Fiction Records.
«Le menzogne pietose sono piuttosto oscure… È così che vediamo noi stessi. Le bugie raccontate a fin di bene proteggono dalle verità sconvolgenti dei nostri testi». Con questa frase, rilasciata in un’intervista, la band motiva il nuovo nome. Per le tematiche affrontate – la vulnerabilità umana e i dilemmi che ne conseguono – ma soprattutto per il sound indie rock arricchito da giochi musicali elettronici, la critica li paragona agliEditors.
Più che un richiamo, un’eredità forte degli anni di latta, dato che anche gli Editors sono stati paragonati a superclassici come i Cure.
Ad Aprile 2008 esce il loro primo ep, Unfinished Business, in cui si notano la vocalità imponente del frontman e lo stile indie. La title track colpisce forte, grazie anche a un videoclip in cui si alternano le immagini del gruppo che si esibisce in una stanza a sequenze in cui una ragazza dall’aspetto dark piange lacrime nere mentre cammina in una campagna. A novembre e dicembre 2008 la band si esibisce in alcune date negli Stati Uniti come gruppo spalla deiGlasvegas.
A gennaio del 2009 esce l’album d’esordio To Lose My Life. Il singolo omonimo balza subito incima alle classifiche, grazie a un’efficace simbiosi tra contenuti malinconici (l’appello disperato a un amore finito) e sound pungente che tinge il pezzo di dark, con palesi richiami a Cure, Joy Division ed Editors. Nello stesso anno vanno in un tour internazionale con iColdplay. L’anno successivo fanno da spalla ai Muse.
A gennaio 2011 esce, Ritual, prodotto da Alan Moulder, mago della consolle per artisticomeSmashing Pumpking, My Bloody Valentine e Nine Inch Nails. Tornano le tematiche dell’esordio, i massimi sistemi su vita e morte, ma non mancano gli accenni all’amore. E, visto che le ricette vincenti non si cambiano, il sound riprende tutte le caratteristiche salienti del predecessore.
Ad agosto 2013 è il turno di Big TV. Un concept album dalle sonorità di nuovo ottantiane che racconta la vita di una coppia di innamorati sono emigrati in una nuova città.
Nel 2016 arriva il quarto album, Friend, che vira sulla new wave più accesa, per ribadire l’amore verso i ruggenti ’80.
Ed eccoci a Five. La band anche stavolta ribadisce lo spirito ottantiano, ma tenta più approcci stilistici.
Si parte con Time To Give, un pezzo che riesce ad essere scorrevole nonostante i sette minuti e mezzo di durata, grazie alle parti strumentali ben congegnate ed efficaci.
Il testo, come sempre, esprime un dilemma, in questo caso tra la scelta di arrendersi o quella di resistere. Ma la risposta arriva presto: «You’re got the backbone to stick around» (alla lettera: Hai la spina dorsale per restare).
In Never Alone è evidente la ritmica elettronica rafforzata dai tocchi della batteria. Nel testo emerge una critica al pensiero moderno: («But the modern throught is Never Alone») che non è mai critico perché segue l’attitudine delle masse.
Finish Line è una ballad che a tratti sfocia nella malinconia.
Anche Kick Me si basa su una melodia lenta ma viene alternato da un rialzo dei toni nel ritornello, in cui la band provocatoriamente chiede di essere presa a calci, ma il tutto si calma davanti alla paura della solitudine: «I know it’s dark, But I can’t be alone. I won’t be alone».
Con Tokyoi White Lies tentano la carta radiofonica, grazie all’atmosfera pop del pezzo.
In Jo? la musica accelera come in una corsa contro il tempo e verso l’ignoto: «You hold the dice and I waiting for your roll» (alla lettera: afferra il dado e io aspetto che lo lanci).
In Denialil testo e la musica dipingono a tinte fosche la violenta malinconia di una vita fatta di apparenze.
Believe, accompagnato da un videoclip, si scatena in una ritmica incalzante lanciata dalla batteria e marcata dal synth.
Chiude Fire and Wings, chedescrive la fine del mondo ancora prima del suo inizio: una visione apocalittica sottolineata dalla chitarra che con tocchi energetici da vitalità al pezzo: «All the bravest Boys are waiting for the world to end».
Un ritorno con stile, in cui i White Lies giocano ancora (e bene) su quel fattore nostalgia che ha caratterizzato la loro carriera. Da ascoltare, non solo per chi ricorda gli anni ’80 come l’età dei sogni.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale dei White Lies
Da ascoltare (e da vedere):
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