Potenza, melodia e un po’ di pop: il metalcore secondo i Memphis May Fire
La band americana strizza l’occhio al mainstream in Broken, il suo ultimo album caratterizzato da una forte versatilità stilistica e da un grande impatto sonoro
Fratelli minori di big come All That Remains, Avenged Sevenfolded e Shadow Falls, i Memphis May Fire appartengono all’ultima ondata del metalcore, affermatasi a metà dello scorso decennio con maggiori ambizioni (e potenzialità) dei pionieri del genere.
Parliamo, ovviamente, della versione più ibridata, che strizza addirittura l’occhio all’hard più commerciale e non disdegna approcci melodici tendenzialmente pop, sebbene calati in un contesto sonoro più pesante.
Nulla di male in questo. Anzi: è un’evoluzione quasi necessaria per il metalcore, nato a sua volta da una serie di ibridazioni tra punk, hardcore ed heavy metal.
Il problema, come sempre, è di onestà artistica e occorre saper distinguere tra chi si ibrida solo per ottenere piazzamenti in classifica e chi, invece, lo fa in coerenza a un percorso creativo ben delineato.
A quest’ultima categoria appartengono senz’altro i Memphis May Fire, nati nel 2006 arrivati col recente Broken, uscito a fine 2018 per la Rise, al traguardo del sesto full lenght in studio.
A scanso di equivoci, occorre dire subito che Broken, grazie anche al contributo di due maghi della consolle come Drew Fulk e Kane Churko, è un ottimo album, in cui la band del Tennessee si presenta con una formazione a quartetto dopo l’abbandono Anthony Sepe e vira con decisione verso il melodic metalcore.
La ricetta magica dei dieci brani di Broken è l’affiatamento del resto della formazione, stabilizzata dal 2010: il chitarrista e fondatore Kellen McGregor, il cantante e tastierista Matty Mullins, il bassista Cory Elder e il batterista Jake Garland.
Le digressioni soliste sono completamente accantonate in favore di un notevolissimo impatto d’assieme e le geometrie ritmiche, ardite secondo i canoni del genere, non sacrificano l’immediatezza di un album che scorre via che è un piacere.
Quanto questa scelta si riveli vincente si nota sin dall’open track The Old Me, in cui la ritmica tellurica e piena di cambi di tempo e il riffing serratissimo coesistono con una linea melodica orecchiabile, ariosa e ben interpretata da Mullins, che si concede un passaggio rap verso la fine del brano.
Un riff durissimo apre Watch Out, che si segnala per l’eccellente lavoro del chitarrista, abile a picchiare duro come a lavorare di cesello con riff mozzafiato per appesantire con credibilità una linea melodica altrimenti poppeggiante, sebbene, c’è da dire che anche il frontman osa di più, lanciandosi in passaggi growl e rap declamati alla Rage Against The Machine.
Decisamente più leggera, Sell My Soul si snoda su un riff anni ’70 su cui la voce filtrata di Mullins raccorda un refrain per nostalgici dell’hard d’epoca.
I Memphis May Fire riprendono a picchiare duro in Who I Am, meno di tre minuti di sonorità pesanti e caratterizzate da un groove densissimo.
Nella seguente Heavy Is The Weight la band si lancia in un discorso musicale decisamente più melodico: il riffing è più leggero, grazie anche alla presenza di un efficace tappeto del synth e al cameo del christian rapper Andy Mineo.
Melodica, trascinante e dura solo nelle sonorità, Over It è un altro esempio dell’efficacia dell’approccio melodico della band, che risulta credibile anche in contesti quasi esterni al metalcore, a riprova che non conta solo ciò che si suona ma anche il come.
Melodia e grande dinamismo anche in Fool, in cui il quartetto passa con grande credibilità da un refrain rarefatto a un coro pesante.
Strizzare l’occhio a platee vaste non significa, tuttavia, rinunciare a sperimentare. Lo prova Mark My Woods, in cui la linea melodica piuttosto lineare (e sì, radiofonica) è incorniciata da un riff ispirato allo stoner rock. E le sorprese non finiscono qui, perché Mullins si lancia in varie parti in growl nei cori e nella parte finale del brano.
Un arpeggio di piano delicatissimo e cristallino intoduce You & Me, una ballad sognante dal grande impatto emotivo.
Live Another Day chiude l’album con un caleidoscopio di sonorità che riassume tutta la varietà di stili esplorati dalla band in Broken: si va dai refrain ariosi e minimali ai cori da stadio, il tutto inframmezzato da cambi di tempo a dir poco arditi e da un riffing micidiale.
Broken è una valida conferma per una band che, a dispetto di alcune turbolenze passate (le crisi depressive del frontman e i cambi di formazione tutt’altro che pacifici), dimostra di avere molto da dire. E forse di poter contribuire a un’ulteriore crescita di un genere, il metalcore, che si incammina con fatica ma grandi risultati verso il mainstrem.
Da ascoltare (e da vedere):
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