Creye, Quel pop rock che risorge dalla Svezia
L’album d’esordio della band scandinava rievoca gli ’80 profondi con melodie magniloquenti, synth analogici, omaggi a Stallone e Stephen King…
Diciamo subito due cose a scanso di equivoci.
La prima: Creye, l’omonimo album d’esordio degli svedesi Creye è un buon prodotto di pop rock radiofonico, in linea con la mission della Frontiers, la label italiana in prima fila nella riscoperta, nel rilancio e nella valorizzazione a oltranza del rock melodico.
La seconda: Creye è un ottimo prodotto, concepito bene e suonato meglio, ma non è quel capolavoro che le webzine specializzate credono che sia. Inoltre, l’aspetto pop prevale su quello rock: prova ne sia che i suoni risultano più brillanti che graffianti e che i synth prevalgono sulle tastiere. Cosa piuttosto peculiare in un sestetto con due chitarre e un solo tastierista.
Nulla di strano, allora, che i tredici brani dell’album suonino come un tributo ai Survivor più pop, per capirci quelli delle colonne sonore di Rocky.
Un tributo, peraltro, fatto in perfetta buonafede e con un certo rigore filologico, perché il chitarrista Andreas Gullstrand, il leader e fondatore del sestetto, è un maniaco degli anni ’80 più profondi e ha fondato i Creye proprio per dare libero sfogo artistico a tanta passione dopo essersi fatto notare nei Grand Slam, hard rock band svedese omonima del side project del compianto Phil Lynott.
A dare manforte al sogno ottantiano di Gullstrand si sono aggiunti altri cinque compari piuttosto noti nella scena scandinava.
Tra questi spicca per voce e per cognome Robin Jidhed, frontman dalla timbrica pulita e interessante e figlio di Jim Jidhed, rocker scandinavo di buon successo e cantante dei leggendari Alien.
A riprova che non solo in Italia i figli so’ piezz ’e core papà Jidhed ha anche collaborato al songwriting dell’album assieme ad altre glorie come Soren Konqvist degli Issa, Mike Palace dei Kryptonite, Ulrick Lonqvist, già collaboratore di Jim Jidhed, e Hal Marabel dei Bad Habit.
Le premesse per fare bene ci sono. E il resto della band – il chitarrista Frederik Joakimsson, il tastierista Joel Ronning, il bassista Gustaf Orsta e il batterista Arvid Filipson – è più che all’altezza. Certo, Creye non è il luogo dei virtuosismi e degli assoli fulminanti a gogo, perché il dop del pop rock è la precisione, meglio ancora se accompagnata dal buongusto. E queste doti i sei giovanotti di Melmo le possiedono ed esibiscono con garbo.
Un martellante sequencer apre Hold On, che rinvia subito ai Survivor, conditi con riferimenti ai Journey: synth analogici in bell’evidenza, riff tosti ma in secondo piano e soli melodici e misuratissimi su un ritmo spedito-ma-non-troppo. Il tutto impreziosito dalla vocalità americana di Jidhed figlio.
Sulla stessa scia Nothing To Lose, che cita a livello armonico la mitica Eye Of Tiger, al punto che non suonerebbe male come sottofondo in una scena in cui lo Stallone d’annata suda in palestra tra un punch ball e un sacco.
Epicità e magniloquenza pop più chitarroni ed elettronica a manetta in Different State Of Mind, in cui il rinvio più marcatamente rock è agli Styx.
Grande la prestazione di Jidhed, il quale dà prova anche di un’estensione non indifferente, in Never To Late che cita i Journey in maniera diretta, grazie all’ottimo lavoro dei due chitarristi.
All We Need Is Faith è un altro omaggio all’aor dei bei tempi andati: partenza su tappeti elettronici, refrain arioso e coro sobrio. Più un gran bell’assolo di chitarra in cui il gusto della melodia prevale sulle tentazioni virtuosistiche.
Con Miracle arriva la ballad radiofonica, ma senza languori, perché i Creye giocano tutto il brano su un garbato crescendo e alternano le parti morbide arrangiate con la chitarra acustica ai cori pomposi.
Sempre a proposito di nostalgie e fascinazioni ottantiane, non ci vuol molto a capire che Christina, il miglior pezzo dell’album, è un omaggio a Stephen King sotto le mentite spoglie di una canzone d’amore.
L’epica stalloniana rifà capolino nella dinamica Straight To The Top, un inno epico alla buona volontà. Giusto per restare agli Ottanta, non sarebbe difficile immaginare anche Jennifer Beals che si allena in tutina e scaldamuscoli.
Accendini in alto e luci colorate per la superballad Love Will Never Die in cui c’è anche un occhiolino ai Bon Jovi prima maniera.
Ariosa, movimentata e gradevolmente adolescenziale, Still Believe In You non sfigurerebbe come colonna sonora delle coreografie della prima serie di Saranno Famosi.
L’epica adolescenzial-ottantiana ritorna prepotente anche nella spedita e cadenzata City Lights, che potrebbe anch’essa non sfigurare come sigla di un telefilm del decennio di latta.
Sempre cinematica, stavolta nel senso di uno dei tanti film con Michael J. Fox, la tirata Desperate Lovin’, che vira con decisione verso il pop, con sonorità prevalentemente elettroniche e più pulite.
Il viaggio a ritroso si chiude con la più rockeggiante A Better Way, in cui le chitarre si inspessiscono e il drumming si fa più deciso.
Ai fan giapponesi, del genere e della band, la Frontiers e i Creye dedicano un regalino pregiato: una versione acustica (piano e voce) di Straight To The Top, che evidenzia al massimo la sostanza pop del sestetto norvegese e, allo stesso tempo, esalta le qualità vocali di Jidhed.
Niente male davvero: Creye, l’album, è un bel prodotto, adatto soprattutto a chi orecchia un po’ di rock ma non vuole impegnarsi con sonorità più decise e agli adolescenti di ieri, che magari non apprezzavano troppo il genere quando rimbalzava ogni due per tre dalle radio ma che oggi non possono fare a meno di commuoversi davanti a un’operazione nostalgia ben riuscita come questa.
Per saperne di più:
Da ascoltare (e da vedere):
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