L’ultimo saluto a Giorgio Galli
Scompare all’improvviso uno dei politologi più originali e produttivi dell’Italia repubblicana. Iniziò criticando il Pci da sinistra e fu tra i primi studiosi accademici a dare dignità scientifica alla cultura esoterica. Negli ultimi anni aveva iniziato uno scavo importante nel sistema di potere dell’economia finanziaria, in cui vedeva un pericolo per la democrazia
La morte improvvisa di un quasi novantatreenne può non fare notizia. Anzi, non la fa.
Ciò che è degno di nota, a quest’età importante, è semmai il vissuto. E quello di Giorgio Galli, il più importante vegliardo della politologia europea, scomparso a Camogli nel primissimo pomeriggio del 27 dicembre, è il vissuto di uno studioso grande, importante e popolare.
Al punto che i necrologi frettolosi, lanciati in rete dalle testate mainstream, risultano inadeguati.
Infatti, i vari cacciatori di coccodrilli che hanno lanciato la notizia hanno messo in evidenza un aspetto, anche piuttosto modesto, della biografia intellettuale di Galli: la sua teorizzazione, piuttosto datata (risale al 1966), del bipartitismo imperfetto.
In realtà, la riscoperta dell’originalità di una vecchia tesi scientifica, cioè l’analisi del predominio quasi obbligato della Dc nella politica italiana, non risulta quel gran complimento a un ricercatore coraggiosissimo, che riuscì a toccare i nervi scoperti più dolenti del Paese e della sinistra italiana.
Galli, infatti, esordì nel 1953 con una Storia del Partito comunista italiano – aggiornata a più riprese e per vari editori fino allo scorso decennio – nella quale osava mettere in discussione i cardini dell’egemonia culturale comunista, che allora era gramsciana e quindi togliattiana.
In quest’opera seminale mise in discussione la figura, all’epoca quasi sacrale di Gramsci, contestò le ipocrisie interne del più importante Partito comunista occidentale e ne rivelò (rectius: ne denunciò) l’incapacità costitutiva ad adeguarsi alla corretta dialettica democratica dei Paesi occidentali, che prevedevano l’alternanza.
La sudditanza culturale al marxleninismo – di cui la mancata storicizzazione del lascito gramsciano resta tuttora l’aspetto più vistoso – e il vassallaggio politico a Mosca, interrotto qua e là da qualche nevrosi, secondo Galli impedivano al Pci di diventare una socialdemocrazia europea e di porsi come alternativa concreta alla Dc.
Il bipartitismo imperfetto (1966) è solo la conseguenza di questo scavo importante e temerario a sinistra.
Quest’analisi aveva un importante corollario: la denuncia dei limiti di un certo estabilishment culturale, che aveva inibito l’affermazione di una sana cultura riformista nella classe lavoratrice, l’unica cultura che avrebbe consentito alle forze di opposizione di governare il Paese.
Ma Galli non si limitò a rivelare anzitempo i limiti della dialettica democratica italiana. Da vero ricercatore, andò oltre: fu autore di studi profondi e impietosi sull’eversione rossa, di cui mise in dubbio la genuinità quando i terroristi di sinistra erano giustificati e, a volte, coccolati da certa intellighentsia radical chic.
E osò di più: scavò a fondo nelle relazioni più pericolose della politica, quelle col pensiero esoterico, cui per primo diede in Italia una dignità scientifica.
Al riguardo, il suo Hitler e il nazismo magico, pubblicato nel 1999 e riedito in maniera seriale, resta uno dei tentativi più convincenti di studiare le radici profonde di una cultura politica (quella delle destre radicali) altrimenti relegata all’irrazionalismo tout court.
Conoscitore profondissimo della storia politica europea e del movimento operaio, Galli analizzò a più riprese la storia dei partiti, europei e italiani, che restavano per lui la manifestazione più autentica ed efficiente della democrazia.
Ancora: caduto il muro di Berlino, Galli concentrò progressivamente le proprie ricerche sull’economia finanziaria, perché aveva intuito che la sopravvivenza della democrazia e, con essa, della politica si gioca sul terreno dell’economia.
In particolare, il politologo aveva puntato la lente d’ingrandimento sulle classi dirigenti delle grandi multinazionali e, soprattutto, sui loro criteri di selezione, completamente autoreferenziali e al riparo delle responsabilità cui sono invece sottoposte le classi politiche.
Tra una ricerca e l’altra, Giorgio Galli non disdegnò di sporcarsi le mani con la cronache, di cui fu un analista puntuale e di straordinaria lucidità: non è un caso se i suoi libri sui fattacci della Prima Repubblica (e non solo) restano esempi da manuale di controinformazione.
Quasi dimenticavamo: Galli fu professore di Storia delle dottrine politiche all’Università di Milano. Ma questo ruolo accademico, per quanto importante, resta un optional di fronte alla sua bibliografia a dir poco monumentale, per qualità, quantità e importanza.
Con lui la politologia europea perde un altro pilastro.
Un’altra figura di prima grandezza lascia un vuoto e un interrogativo: chi riuscirà a prenderne il posto?
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