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Pearl Jam 2024

Dark Matter: i trent’anni a tutto rock dei Pearl Jam

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Già protagonista della scena grunge, la band di Seattle torna con undici brani fortissimi e ben prodotti da Andrew Watt. Critica divisa ma pubblico entusiasta

I grandi superstiti del grunge hanno qualche problema in più delle vecchie star del metal: come loro, sono divisivi, ma a differenza loro, non riescono a diventare dei classici.

Ciò vale anche per i Pearl Jam, tornati con Dark Matter (Republic 2024) a quattro anni di distanza del valido e fortunato Gigaton: l’album non ha fatto in tempo a uscire ché subito sono piovute critiche, numerose e contraddittorie.

Questo, soprattutto in Italia. All’estero (soprattutto nel mondo angloamericano) i giudizi sono stati più lusinghieri.

Più giù ci occuperemo di questa discrepanza.

Eddie Vedder in azione dal vivo

Prima di passare alla musica, sono doverose alcune indicazioni.

La prima riguarda la formazione, rimasta immutata dalla fine degli anni ’90, segno che la band crede in quello che fa e che i PJ non si sono ridotti a gruppo pedana del frontman Eddie Vedder. Credere questo significherebbe essere ingenerosi con i due fondatori (il chitarrista Stone Gossard e il bassista Jeff Ament) con il chitarrista Mike McReady, anche lui nella band sin dagli inizi, e col batterista Matt Cameron, altra presenza storica del grunge.

Assieme a loro, si sono dati un gran da fare il tastierista Boom Gaspar e il chitarrista Josh Klinghoffer (già in forza nei Red Hot Chili Peppers degli anni dieci), diventati veri e propri membri ombra del gruppo.

La seconda indicazione è relativa alla produzione, curata dall’enfant prodige Andrew Watt, già all’opera con superbig di diversa provenienza, da Miley Cyrus agli ultimi Rolling Stones, passando per Ozzy Osbourne.

Il giovane mago della consolle è stato determinante nel ripulire un po’ il sound dei PJ, che risulta più netto e squadrato, legato senz’altro ai vecchi fasti della band, ma attualizzato quel che basta per incontrare le orecchie dei millennials.

La copertina di Dark Matter

Dark Matter: undici colpi dai Pearl Jam

Intro cinematico che culmina in un colpo di biliardo, poi riffone quadrato che sembra preso dai primi album, tempo spedito e via. Scared Of Fear è un’apertura bella tosta, interpretata bene da Vedder e suonata meglio dalla band (ottimo, a proposito, l’assolo di McReady e ben piazzato il rallentamento con cui si apre la seconda metà del brano). Non manca un pizzico di nostalgia, canaglia come sempre, che fa capolino tra i versi: «We used to laugh/we used to sing/we used to dance/we were our own scene».

Ancora più tosta, React, Respond si regge su un bel tempo veloce e un riffing serrato pieno di echi punk, con il basso distorto in bell’evidenza.

Con Wreckage, una ballad ariosa a cavallo tra Tom Petty e i Rem, i PJ si rituffano con garbo nelle atmosfere fine anni ’90. Davvero suggestivi i cori con le voci armonizzate.

Un pattern massiccio di batteria introduce Dark Matter, un mid tempo marchiato a fuoco da un riff granitico che culmina in un efficacissimo assolo di McReady. È il brano più alla Pearl Jam dell’album.

Won’t Tell è un altro mid tempo ma dai suoni più leggeri e con una linea melodica più marcata. Particolare il finale che rimanda un po’ agli U2.

Un’immagine recente dei Pearl Jam

A proposito di citazioni illustri, non è da meno la successiva Upper Hand, in cui riemerge di tutto, rivisto e scorretto alla PJ. Innanzitutto, l’intro, in cui l’incrocio tra synth e schitarrata alla Pet Townshend rinvia un po’ agli Who di Tommy. Il resto del brano macina assieme i Pink Floyd (con McReady che nell’assolo fa sfacciatamente il verso a Gilmour) con un po’ di Beatles. Difficile pretendere una prova prog da chi si è fatto largo nel grunge. Ma diciamo pure che Upper Hand è il massimo sforzo dei PJ in questa direzione.

Molto efficace il contrasto tra riffone e melodia ariosa su cui si regge Waiting For Stevie, dedicata a Stevie Wonder. Notevole anche l’assolo tutto pentatoniche velocissime di McReady.

Con la breve e tiratissima Running la band di Seattle si colloca su lidi punk. L’originalità sta altrove, ma i due minuti di durata fanno di questo pezzo un godibilissimo divertissment.

Armonie westcoastiane, arrangiamenti acustici e cori ruffiani ma non troppo sono il marchio di Something Special, una incursione riuscita in uno spettro sonoro più pop.

Un arpeggio veloce e sporco introduce Got It To Give, un mid tempo potente e melodico, con una chiusura che ricorda di nuovo gli Who.

Conclude l’album la malinconica Setting Sun, una ballad prevalentemente acustica, con qualche eco dello Springsteeen più intimista.

Un’altra bella immagine di Eddie Vedder in concerto

Pearl Jam: dal mito finto alla musica vera

Torniamo alle riflessioni sull’accoglienza un po’ schizofrenica ricevuta da Dark Matter: ovazioni oltre Oceano, puzza sotto il naso nell’Europa continentale ma soprattutto in Italia.

Da noi, in particolare, la critica (più o meno improvvisata) si è dovuta scontrare con un ostacolo non proprio leggero: l’impossibilità di stroncare un album concepito bene, suonato come si deve e prodotto con tutti i crismi come l’ultima fatica dei Pearl Jam.

Perciò le critiche sono fioccate soprattutto su una pretesa poca originalità o una altrettanto pretesa mancanza di ispirazione. Detto altrimenti: sull’“imborghesimento” degli ex ribelli diventati star.

Insomma, ha rifatto capolino la consueta ideologizzazione di certi ambientini che si vorrebbero colti ma si rivelano faziosi.

A questo punto, qualche precisazione è obbligatoria.

La prima: senza nulla togliere a certe battaglie contro le speculazioni dello showbiz di cui furono protagonisti i PJ, siamo proprio sicuri che si possano definire rivoluzionari degli artisti che, da subito, hanno venduto milionate di dischi? Per quel che riguarda l’attitudine, senz’altro no. Il problema, in Italia, è che la presunta controcultura grunge con annesso martirologio (per capirci, il suicidio di Kurt Cobain, commemorato come esempio di tragica coerenza artistica e non, come più realistico, come esisto di una sindrome depressiva fuori controllo) ha preso il posto di un certo immaginario punk.

Ancora i Pearl Jam in concerto

Il problema è che, di questo immaginario, il grunge non fu una ripetizione ma una contraffazione: da subito, infatti, si rivelò una fabbrica di milionari nevrotici e – perché no? – anche ipocriti. Forse, questa rivoluzione di plastica era l’unica possibile per le ultime generazioni del ’900, che si erano risvegliate bruscamente da tutti i sogni e incubi possibili.

Torniamo alla musica: questa matrice finta spiega anche l’impossibilità per gli artisti provenienti dal grunge di diventare dei classici, a differenza dei fratelli maggiori metallari e punk. Infatti, un genere derivativo come il grunge non può generare artisti di prima grandezza (tali non si possono considerare neppure gli osannati Nirvana).

Perciò a quelli bravi resta solo un’alternativa: tentare di darsi al rock, più o meno duro, ma senza (troppe) etichette. In pratica, diventare rockstar senza complessi.

Che è poi quel che hanno fatto i Pearl Jam, ma anche gli Alice In Chains e i Soundgarden (soprattutto quelli del nuovo millennio).

Tutti, ciascuno secondo la propria attitudine e le proprie capacità, si sono messi a suonare altro: chi hard rock e alternative metal (gli Alice), chi, come i Nostri, cerca la via del rock anni ’70. Finiti i clamori, resta la musica. Che, quando è godibile come in Dark Matter, è l’unica cosa che conta.

Per saperne di più:

Il sito web ufficiale dei Pearl Jam

Il sito web italiano dei Pearl Jam

Da ascoltare (e da vedere):

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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