Ogni cosa era bella. L’ennesimo ritorno di Moby
Atmosfere ambient e melodie sognanti nel nuovo album, il terzo in meno di due anni, dell’artista newyorchese
Non ha fatto in tempo ad uscire, che subito le citazioni dotte si sono sprecate.
Everything Was Beautiful and Nothing Hurts (Little Idiot–Mute, 2018), l’ultimo album di Moby, è fatto anche per incoraggiare l’enciclopedismo in un settore, quello dell’elettronica e della dance, altrimenti associato all’evasione.
A partire dal titolo, tratto dal romanzo Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut, per proseguire con i brani Mere Anarchy (che apre il cd) e The Ceremony of Innocence, ispirati alla poesia The Second Coming di William Butler Yeats. Per concludere con l’omaggio ad Hard Times del cantante soul Baby Hueyin contenuto in Welcome to Hard Times.
Intellettualistico e musicalmente grafomane, Moby è arrivato al terzo cd in circa due anni, dopo These Systems are Falling (2016) e More Fast Songs About the Apocalypse (2017), entrambi accreditati al progetto musicale The Void Pacific Choir e ispirati dalla rabbia e dalla delusione per la vittoria di Trump.
Opinioni politiche a parte, c’è da dire che con Everything… l’artista newyorkese cambia genere: stavolta niente atmosfere serrate e ritmi techno, ma un’immersione nell’ambient di gran classe, che richiama alcune lezioni musicali dell’Inghilterra degli anni ’90.
Come sempre, il Nostro fa quasi tutto da sé: compone, arrangia e produce da Dio alla consolle (e non sembri blasfema l’affermazione, visto che quest’album è pieno di aneliti metafisici e riferimenti religiosi) e quando può canta. O meglio, recita rappeggiando. Le parti vocali più melodiche, sono affidate a varie partner musicali.
La losangelina Mindy Jones duetta col gran capo nell’apocalittica The Waste of Suns, nella sognante The Last of Goodbyes e nell’ipnotica The Tired and the Hurt. Bella anche la performance della californiana Raquel Rodriguez nella struggente Like a Motherless Child e della texana Julie Mintz, che si ritaglia il ruolo da solista nella ritmata The Sorrow Tree, che rievoca atmosfere new age.
Brava anche la black Apollo Jane, che presta le proprie timbriche soul alla già menzionata Welcome to Hard Times e alla blueseggiante A Dark Cloud is Coming, che chiude il cd con un tocco gospel minimale.
Tutto il resto è Moby al cento per cento.
Che dire?
Ad un ascolto attento, Everything… risulta il classico momento di riflessione dopo lo scoppio di rabbia. L’impegno politico e sociale dei due album precedenti arretra per lasciare spazio alle classiche domande sui massimi sistemi, a cui la musica fa da degna cornice: avvolgente, densa e labile allo stesso tempo, avvolge l’ascoltatore con i fortissimi degli archi, riff e arpeggi campionati e tappeti ritmici volutamente sintetici.
In occasione dell’uscita di quest’ultimo album, l’artista newyorchese ha dichiarato: «Perché un uomo di 52 anni deve fare uscire un album quando la gente non ne compra più? Io amo gli album e credo che ogni disco contenga un universo».
Quello di Everything… è sfaccettato e di non semplice decifrabilità. Forse è un affascinante momento di transizione, in vista del prossimo album orchestrale, previsto per il 2019. Intanto, immergiamoci pure in queste atmosfere stratificate.
Moby è tornato dopo un brevissimo intervallo. E, se continua così, speriamo che resti a lungo.
Da ascoltare (e da vedere):
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