Gli All That Remains riprendono a picchiare duro
Con Victim Of The New Disease, uscito poco dopo la tragica scomparsa del chitarrista Oli Herbert, la band del Massachussets tenta di recuperare le sonorità estreme degli esordi senza abbandonare le contaminazioni melodiche che hanno reso celebre il loro sound
Ancora è presto per dire che futuro avranno gli All That Remains, band seminale della scena metalcore internazionale.
È presto e difficile. Non solo per la tragedia, forse irreparabile, che ha colpito il quintetto del Massachussets a novembre: la scomparsa di Oli Herbert, il bravo chitarrista e cofondatore de gruppo, sostituito (al momento) da Jason Richardson, altra stella del metal contemporaneo.
I dubbi più seri riguardano chi resta, in questo caso il loro percorso artistico. Detto altrimenti: gli All That Remains torneranno davvero duri e puri come alle origini di inizio millennio oppure continueranno nell’ibridazione col rock tradizionale degli ultimi album, scelta ad avviso di chi scrive ben fatta ma contestata dai fan?
Victim Of The New Disease, uscito per la Razor & Tie lo scorso novembre pochi giorni prima della morte di Herbert, non risolve il quesito, perché le sue dieci canzoni si tengono (bene) in bilico tra le due direzioni.
Il risultato è un album tosto e coinvolgente, che consegna agli ascoltatori e ai fan una band in gran forma.
Con l’opener Fuck Love, la band tenta di far pace con i suoi seguaci storici, a cui regala un pezzo tiratissimo e violento, suonato con tutti i crismi. Terrificante il tour de force della sezione ritmica: Jason Costa picchia come un dannato sulla doppia cassa, accompagnato con pari violenza da Aaron Patrick, che è subentrato a Jeanne Sagan al basso nel 2015.
Impressionante anche il wall of sound creato da Mike Martin e dal compianto Herbert, forse una delle migliori coppie di chitarristi del metal estremo contemporaneo.
Spicca come sempre la capacità del leader Philip Labonte di cantare in growl mantenendo una timbrica comunque pulita, molto di più rispetto ai frontman del genere, indice di una notevole tecnica vocale.
Ma anche di una non indifferente flessibilità vocale, espressa nella successiva Everything’s Wrong, un’ottima power ballad piena di controtempi e cambi di atmosfera, in cui Labonte fa sfoggio di ottime capacità melodiche ed Herbert si lancia in un assolo carico di pathos e suonato con gran sentimento.
Con Blood I Spill la band schiaccia di nuovo l’acceleratore e si lancia in un brano molto vario, in cui si alternato un refrain serratissimo alla Slipknot urlato a tutto growl e un coro melodico di grande impatto (e ariosità).
Sulla stessa falsariga, Wasteland, in cui il contrasto tra vocalità death e cori melodici è esasperato dai continui cambi di tempo e stop and go, in cui il quintetto si diverte a inserire passaggi rallentati tipicamente doom.
Alone In The Darkness è la seconda ballad dell’album e stavolta senza l’aspetto power: i suoni sono pulitissimi e le chitarre acustiche, tranne l’assolo soffertissimo di Herbert.
Una pausa salutare per le orecchie, perché con Misery In Me la band riprende a picchiare con tutti i crismi: il risultato è un pezzo di metalcore tirato e vario, dal refrain epico, caratterizzato dal consueto contrasto tra strofe in growl e bridge e coro melodici.
Da manuale l’assolo di Herbert, che riprende la melodia epica del brano con grande efficacia e senza eccessi.
Broken è un brano metalcore che in parte richiama i Pantera per il riffing serrato, che sfocia in un altro coro melodico.
Just Tell Me Something è un’incursione fuori genere: un pezzo di alternative metal melodico, robusto ma senza sfuriate, forse anche a causa della partecipazione di Danny Worsnop, leader degli americani We Are Harlot e degli Asking Alexandria, che divide il microfono con Labonte.
Decisamente più dura ma sempre melodica I Meant What I Said, in cui il riffing tosto fa da tappeto a una melodia evocativa e a tratti sognante.
I titoli di coda scorrono sulla title track, un brano che ripropone con la consueta efficacia il contrasto tra violenza e melodia, che è il dop della band.
Victim Of The New Disease è un album coinvolgente e ben realizzato. C’è da augurarsi che non sia il canto del cigno di una band che dimostra di poter dare ancora molto.
Tutto dipende dalla capacità di Labonte e compagni di scegliere un sostituto definitivo del chitarrista scomparso e di rinnovare il sound senza perdere quella coerenza che nel metalcore è quasi tutto.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale degli All That Remains
Da ascoltare (e da vedere):
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