True Rockers, i Monster Truck corrono sulle autostrade del rock
Nel loro terzo album i rockettari canadesi ripropongono il loro heavy southern piano di riferimenti al metal e divagazioni texane, più alcuni riusciti esperimenti in direzione mainstream
In circa otto anni di carriera, i Monster Truck hanno bruciato non poche, invidiabilissime tappe: il ruolo di open act nei concerti dei Deep Purple, uno Juno Award ottenuto nel 2013 come rockband canadese dell’anno, vari piazzamenti lusinghieri nelle classifiche nordamericane e tre canzoni inserite nelle colonne sonore di telefilm e videogiochi.
La ricetta del successo di questo quartetto dell’Ontario è semplice: un hard rock robusto dalle venature southern e blues con qualche puntata nell’heavy degli anni ’70, il tutto reinterpretato con energia e inventiva.
Il loro terzo True Rockers, uscito lo scorso autunno per la label Dine Alone e prodotto dal britannico Dan Weller, insiste nello stesso percorso e, contemporaneamente, tenta qualche altra strada, grazie anche all’apporto di Gavin Brown e Maia Davies, coautori e produttori dei brani Evolution, Young City Heart e Hurricane, che risultano piuttosto eterodossi (ma non per questo fuori contesto) sia rispetto agli altri brani dell’album sia rispetto alla produzione complessiva della band.
Ma andiamo con ordine.
La tirata True Rocker apre l’album con toni scanzonati che fanno da degno contorno a un simpatico cameo del mitico Dee Snyder dei Twisted Sisters, che recita un sermone rock subito dopo l’assolo rozzo e distorto di Jeremy Wilderman. Un’autocelebrazione ma anche un segno di riconoscimento, l’ennesimo, a una carriera non lunghissima ma vissuta con grande coerenza.
In Thundertruck fa capolino l’organo hammond di Brandon Bliss che dà un sapore rainbowiano a un brano dalle ascendenze motorheadiane, presenti nel drumming massiccio di Steve Kiely, nel riffing di Wilderman e nel cantato greve e nelle linee di basso del frontman John Harvey.
Evolution, come già accennato, è il primo episodio eretico dell’album, utilizzato forse non a caso come singolo apripista: un pezzo dalla struttura grunge e dal coro poppeggiante in cui l’elettronica contende gradevolmente lo spazio alla chitarra (che a sua volta presenta distorsioni meno pesanti).
Con la beffarda Devil Don’t Care il quartetto ritorna sui sentieri di un southern sulfureo che strizza l’occhio agli ZZ Top con l’aggiunta di un’armonica a bocca a marcare il riff e di una chiusura stoner in perfetto stile sabbathiano.
I due minuti e mezzo di Being Cool Is Over sono puro rock ’n roll feroce e scanzonato allo stesso tempo da pogare selvaggiamente sotto il palco a proprio rischio e pericolo.
Young City Heart, il secondo episodio eretico, vira invece verso il pop, grazie a un arrangiamento più leggero e a un coro ruffianissimo.
In Undone, una ballad southern zeppa di riferimenti al miglior country blues, c’è un omaggio più che sentito e coinvolgente ai Lynyrd Skynyrd, Un lento ruvido e a tratti malinconico e sensuale ma nient’affatto sdolcinato e prevedibile.
Con My Own Word i quattro canadesi innestano di nuovo la marcia alta e regalano ai fan un rock robusto e oscuro dal ritmo tirato e dal suono artatamente rozzo.
Denim Danger è uno stoner ultradinamico dal riffing che più settantiano non si può. Un monito ai classici come i Monster Magnet e alle nuove leve del genere.
Il rock ’n roll scanzonato e un po’ punkeggiante di Hurricane è il terzo ammiccamento mainstream dell’album, sebbene in questo caso il sound mantenga una certa durezza.
Chiude l’evocativa The Howlin, un altro saggio di southern countryeggiante dai toni epici che sconfina a tratti nella psichedelia.
Un buon ritorno per i Monster Truck, che si rivelano capaci di innovare senza snaturarsi e, allo stesso tempo, di continuare ad essere credibili in un genere che lascia poco spazio alla creatività, segno che l’arte il più delle volte non consiste in quel che si suona ma in come lo si suona.
Buon ascolto.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale dei Monster Truck
Da ascoltare (e da vedere):
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