Da New York con vigore, il sesto album degli Interpol
Il trio leader della scena indie sforna Marauder, una raccolta di undici pezzi abrasivi, con cui la band tenta di rinnovare il sound che l’ha resa celebre
Mica pretendevate che restassero sempre gli stessi, o sì? Una copertina asciutta dai riferimenti politici non troppo velati (il procuratore generale Elliot Richardson, che mise sotto torchio Nixon durante il Watergate). Una produzione rude ed essenziale, affidata a Dave Fridmann, già alchimista del suono per i Flaming Lips, i Mercury Rev e gli Mgmt. Una virata nel sound e nel songwriting, che risultano più cupi e privi di quelle strizzatine d’occhio all’easy listening che li avevano resi famosi.
Ed ecco, gli Interpol, sono tornati. Marauder, pubblicato dalla consueta Matador, ci consegna una band parzialmente cambiata, non solo rispetto alle origini gloriose del mitico Turn On The Bright Lights (2002), ma anche in confronto al passato recente di El Pintor (2014), il primo album della formazione attuale, senza lo storico bassista Carlos Dengler.
Pure ridotti a trio (con Paul Banks che canta e si destreggia bene tra basso e chitarra, il chitarrista Daniel Kessler e il batterista Sam Fogarino) gli Interpol hanno ancora molto da dire e si dimostrano in grado di lanciare un ponte verso il futuro, loro e della scena indie di cui sono una punta di diamante, senza abbandonare del tutto l’attaccamento alle radici post punk e new wave.
Criticato un po’ troppo (e decisamente a torto), Marauder è invece un album aggressivo e convincente, piuttosto in linea con i nuovi indirizzi della scena indipendente.
If You Really Love Nothing, uno dei singoli apripista, apre l’album con una bella cadenza alla Joy Division e un cantato melodico che appoggia sulla chitarra sferragliante.
Segue The Rover, il primo singolo tratto dall’album, in cui il terzetto newyorchese si lancia su un ritmo spedito e pesante commentato da un riff minimale della chitarra.
Complications è un altro omaggio alla new wave melodica degli anni ’80 (non solo i menzionati Joy Division, ma anche i Bauhaus e i Cure più pop) condita dalle dissonanze della chitarra.
Flight Of Fancy resta negli stessi territori, ma con sonorità più pesanti, che citano i Muse prima maniera.
Più rock, grazie a un riff marcato, ma anche più cupa, Stay In Touch si segnala per l’interpretazione tenebrosa di Banks, che ripiomba l’ascoltatore negli ’80 più cupi.
Un minuto di pausa con gli accordi gotici di Interlude 1, e si riprende con la melodia ariosa di Mountain Child, che s’inerpica (letteralmente…) in crescendo su una ritmica martellante e su un riffing rozzo e minimale.
Le radici ottantiane riemergono prepotenti anche in Nysmaw, che sembra uscire da un pub della Londra più post punk.
Più pop nella struttura, Surveillance coniuga con efficacia una melodia stralunata e un tempo quasi ballabile.
Una sequenza di arpeggi pesantemente effettati con l’eco e il delay introduce la punkeggiante Number 10, non a caso decima canzone della raccolta e terzo singolo.
Più cadenzata, Party’s Over lambisce la psichedelia più cruda con un andamento in crescendo spezzato dai controtempi pesantissimi di Fogarino.
Un altro minuto di atmosfere sinistre in Interlude 2 e la band si lancia nel gran finale di Probably Matters, una ballad potente dalla melodia sognante e dall’arrangiamento sghembo.
No, davvero non dobbiamo preoccuparci: gli Interpol non deludono e anzi, risulta ammirevole lo sforzo di rinnovarsi in un genere dagli schemi piuttosto rigidi e pieno di cliché a volte ineludibili.
E pazienza se tocca a band americane come loro rinverdire i fasti di una scena nata in Gran Breatagna e, almeno lì, finita un po’ in asfissia.
Buon ascolto.
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