Settantasei anni e non sentirli, Paul McCartney appassiona ancora
L’ex beatle sforna Egypt Station, sedici brani di grande musica, un pop contemporaneo che si emancipa dal passato ingombrante della superstar e mira alle vendite milionarie con grande classe
C’è quasi da provare il classico timore reverenziale nello scrivere su Paul McCartney. A partire dalle definizioni, che su un gigante come lui suonano banali: la classica ma sminuente ex beatle, la banale popstar o la scontatissima artista.
E lo stesso timore lo si prova nell’accostarsi a un suo album: come valutare la produzione di uno che da sessant’anni circa detta le regole al mondo della musica?
E, soprattutto, come pensare all’antipatico liverpudliano senza far scattare i paragoni col suo passato così grande e così ingombrante?
Certo, è il bassista stesso a darci una mano, visto che il suo ultimo Egypt Station, il diciottesimo album solista uscito a fine estate per la Capitol, ribadisce la volontà di fare altro e di continuare a emanciparsi dal mito degli scarafaggi e da quel passato che si ostina a non passare perché pesa ancora come un macigno nell’immaginario di almeno quatto generazioni.
Quest’altro è certamente il pop superpatinato e contaminato con cui il Nostro ha dominato le classifiche mondiali a più riprese senza gli ammiccamenti artistoidi e le infatuazioni ideologiche di Lennon, ma anche il tentativo di sperimentare in più direzioni e con più contaminazioni, come ai vecchi tempi dei Wings. Con risultati piacevoli.
Sarà pure pretenzioso, Egypt Station. Tuttavia è il classico album di cui è quasi impossibile dir male, perché McCartney non è uno che fa le cose a caso e riposa sugli allori di meritate royalties milionarie. Tutt’altro: il songwriting si mantiene ai consueti livelli d’eccellenza, grazie anche allo zampino di Ryan Teddler (coautore di Fuh You, uno dei singoli apripista), e all’abilità di Greg Kurstin, che ha coprodotto l’album assieme al baronetto, imprimendogli una direzione artistica piuttosto attuale.
Per i beatlesiani non c’è più quasi nulla, perché anche la voce del Nostro (che nell’album suona di tutto, clavicembalo incluso, assieme a Kurstin e ricorre pochissimo alla sua storica live band) non è più quella acuta e cristallina dei tempi d’oro, da Yesterday a Live And Let Die.
Egypt Station è un album grandioso di pop internazionale che mira ad aggredire le classifiche per l’ennesima volta e, data l’età dell’artista (settantasei anni portati alla grande), a lasciare un buon ricordo nei limiti del possibile.
Sedici brani, di cui due brevissimi strumentali, per un’ora circa di musica, il tutto vagamente strutturato come un concept in cui ogni canzone è una stazione simbolica di un unico viaggio artistico.
Opening Station, uno dei due strumentali introduce nell’album con un escamotage narrativo efficace: i rumori di fondo, che evocano il traffico di una stazione, sfociano in un brevissimo coro, il quale a sua volta proietta l’ascoltatore in I Don’t Know, il brano più maccartyano della raccolta: breve introduzione del piano, a cui si aggiunge la chitarra acustica nel secondo giro e poi andamento da rock ballad, in cui l’ex beatle rievoca qualcosa di Bob Dylan nel modo di cantare.
Come On To Me, primo singolo tratto dall’album, è un rock divertentissimo, che si regge su un andamento honky tonk, in cui la chitarra vagamente grunge spara un riff di tre accordi armonizzato dal piano martellante.
Happy With You è una ballad per chitarra acustica e voce, in cui il bassista strizza l’occhio al country.
Un fischio Larsen della chitarra introduce Who Cares, un pezzo dall’andamento rockeggiante che evoca in parte gli ZZ Top e in parte i Dire Straits più elettrici (avete presente Money For Nothing?).
Fuh You, l’altro singolo, che spopola da qualche settimana su Youtube, non è (solo) una parolaccia camuffata male: è una efficacissima pop song di nuova generazione, però interpretata dall’alto di sessant’anni di grande esperienza musicale. È una specie di nemesi, in virtù della quale Macca si riprende tutto quel che ha dato, in termini di influenza e suggestione, ai maestri del brit pop alla Blur o alla Oasis.
Più minimale – di nuovo solo voce e chitarra – Confidante è un’altra ballad in cui MacCartney cita di nuovo Dylan.
In People Want Peace, che sembra una risposta a distanza alla lennoniana Give Peace A Chance, tornano gli arrangiamenti sofisticati, con una batteria robusta in bella evidenza e armonie che danno toni maestosi a una melodia semplice e canticchiabile.
Hand In Hand – una ballad sognante per piano e chitarra impreziosita dai ricami di un flauto e degli archi – strizza l’occhio agli anni ’80, in cui l’ex beatle mantenne il suo status di superstar senza svendersi.
Dominoes è un gradevole divertimento pop dall’andamento ritmato un po’ a filastrocca.
Back In Brazil è il brano più ambizioso e riuscito della raccolta: una bossa ben arrangiata e sofisticata quel che basta su cui si innesta una melodia pop non banale.
Romantica e sognante, Do It Now è tutta un tripudio di tastiere, dal piano al clavicembalo e ai synth, che esplode in una parte semiorchestrale.
Caesar Rock è il pezzo più rock dell’album: un up tempo marcato dal basso distorto e dagli accordi brutali della chitarra acustica che ricordano vagamente i Clash, più inserzioni funky arricchiti da qualche fraseggio elettrico.
Despite Repeated Warnings è il brano più complesso: partenza da ballad e crescendo ritmato nel solco di quella grande tradizione pop di cui Macca è uno degli iniziatori assoluti.
Station II, l’altro strumentale, ripete lo schema dell’intro con una chicca in più: al coro seguono fraseggi e un riff rozzissimo di chitarra elettrica che conducono al gran finale di Haunt You Down/Naked/C-Link, un recital in tre movimenti: attacco rock, in cui sembra di sentire i redivivi Wings citare gli Who, intermezzo al piano un po’ broadwayano, blues strumentale con chitarra elettrica in evidenza per concludere.
Un mini festival di citazioni conclude un album densissimo, con cui MacCartney sembra ricordarci, a partire dalla simpatica copertina, che il pop è un sogno cromatico, che va dal bianco e nero delle origini e culmina nei finti colori dei ’70 e nei lustrini degli ’80. Tutti i colori tranne il grigio, che l’ex beatle, grazie a una cura scrupolosa ma non maniacale dell’immagine non ha neppure nei capelli.
Settantasei anni e non sentirli (o quasi). E speriamo solo che Egypt Station sia un arrivederci a presto da Paul.
Per saperne di più:
il sito ufficiale di Paul McCartney
Da ascoltare (e da vedere):
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