Wilko Johnson: il miracolato del rock’n roll torna a ruggire
Tutto da ascoltare (e persino da ballare), Blow Your Mind, il nuovo album del chitarrista britannico, uscito quattro anni dopo la vittoriosa battaglia dell’artista contro un brutto tumore
È tornato Wilko Johnson, il miracolato del rock. Ma così è troppo banale. Approfondiamo: è tornato Wilko Johnson, il miracolato del rock, sopravvissuto per miracolo a un tumore al pancreas rivelatosi meno tragico di quanto sembrasse non appena gli era stato diagnosticato.
Ancora: è tornato Wilko Johnson, chitarrista dalla tecnica bizzarra (è il caso di ripetere che non usa il plettro ma una curiosa tecnica mista tra fingerpicking e strumming, non il massimo del virtuosismo ma molto efficace), fondatore dei mitici Dr Feelgood, creatori del pub rock annoverati nella folta schiera dei precursori del punk, e protagonista di una carriera musicale a dir poco discontinua, nel corso della quale è riuscito anche ad affermarsi come attore nel ruolo del boia ne Il trono di spade.
La premessa è più o meno completa.
Ora viene la parte più difficile, visto che Johnson è comunque quel che si dice un mostro sacro: giudicare il suo ultimo Blow Your Mind, uscito a inizio estate per la Chess, a prescindere dalla vicenda umana dell’artista.
Già: nel 2013, quando sembrava che la sua vita fosse in conto alla rovescia, Johnson aveva annunciato il Farewell Tour e aveva inciso Going Back Home sotto il pungolo dell’amico Roger Daltrey. L’album, un’efficace raccolta di cover di brani dei Dr Feelgood e di Bob Dylan, valorizzate dal vocione del frontman degli Who, ebbe un ottimo successo, anche a causa della notizia choc sulle condizioni di salute del chitarrista.
A quattro anni di distanza, con Johnson guarito dopo nove ore di intervento in cui gli hanno smontato le viscere pezzo per pezzo, tocca parlare di musica. Cioè rispondere a una domanda banale: Johnson è solo un sopravvissuto, capace al massimo di suggestivi richiami nostalgici o ha ancora cose da dire?
Rispondiamo subito: Johnson, per fortuna dei suoi fan, ha tante cose da dire e Blow Your Mind, primo album di inediti in trent’anni, conferma che la salute artistica del Nostro va di pari passo con quella fisica, ritrovata per miracolo.
Beauty apre la raccolta con una dichiarazione d’intenti efficacissima: è un pezzo di rock blues cadenzato, in cui i tocchi vagamente funkeggianti della chitarra accompagnano la voce stentorea di Johnson (sì, Daltrey era un’altra cosa, ma Johnson non è malissimo), che spara qui e lì dei fraseggi alla Stevie Ray Vaughan.
Valida anche la prestazione della sezione ritmica, costituita dal bassista Norman Watt-Roy (già con Blockheads di Ian Dury e con Nick Cave) e dal batterista Dylan Howe (in precedenza sodale di Paul McCartney e David Gilmour e figlio del blasonatissimo Steve degli Yes), che hanno accompagnato Johnson nell’album precedente.
Dinamica e ancor più fukeggiante la title track che si svolge su un levare dall’effetto vintage.
In Marijuana sono invece visibili i richiami al southern, grazie al cantato vagamente country e ai soli dell’armonicista Steve Weston.
Tell Me One More è un efficacissimo jungle rhytm, introdotto da un bel basso slappato e impreziosito dalle incursioni dell’organo Hammond dell’ex Style Councyl Mick Talbot.
A metà tra il rock’n roll e il southern, That’s The Way I Love You è piena di altri richiami ruffianissimi a Stevie Ray Vaughan.
Low Down è il classico bluessaccio lento che non può mancare in un album di questo tipo, una bella performance d’assieme resa profonda dall’Hammond e rovente dall’armonica, che si inseriscono tra una strofa e l’altra.
Ancora rock blues dagli influssi southern in Take It Easy, in cui la chitarra di Johnson acquista sonorità più rock.
Tutta ritmo e rock’n roll quasi ballabile, marcato da tostissimi interventi di pianoforte, I Love The Way You Do è il classico brano per animare le serate in un locale.
Sulla stessa falsariga, It Don’t Have To Give You The Blues è un altro rock blues dai vaghi richiami anni ’60 con una bella prova di Talbot.
Lament è il primo dei due strumentali dell’album, un blues lento in cui Johnson dà un saggio della sua particolare tecnica chitarristica: nulla di particolarmente virtuosistico, ma comunque di grande efficacia nel costruire atmosfere torride.
Say Goodbye e un rhytm’n blues alla maniera di John Lee Hooker, col classico botta e risposta tra riff e voce e fraseggi ruvidissimi.
Chiude l’album Slamming, il secondo strumentale, stavolta tiratissimo e dinamico.
Sì, il vecchio leone ce l’ha fatta e ruggisce ancora bene, a dispetto di qualche chilo di viscere in meno. E, ad ascolto finito, vien da chiedersi se dall’alto qualcuno abbia voluto dargli un’altra possibilità al solo scopo di consentirgli di continuare a deliziare il suo pubblico.
Salvato dal rock’n roll e per il rock’n roll? Non sappiamo. Johnson, in un’intervista di qualche tempo fa, si è schernito: «Veramente mi hanno salvato i medici».
Chiunque lo abbia salvato, Padreterno, diavolo o medici, ha fatto bene.
Buon ascolto.
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