Sonder, torna il prog metal estremo dei Tesseract
Melodie, tempi dispari e forti prove d’assieme nel quarto album del quintetto britannico, considerato il creatore del djent metal
Sonder, alla lettera, vuol dire speciale. Il Tesseratto, invece, è un concetto a metà tra il letterario (fu creato dallo scrittore inglese Charles Howard Hinton, uno dei papà della fantascienza) e lo scientifico e indica il cubo a quattro dimensioni.
Ma Sonder è anche il titolo del quarto album in studio dei Tesseract, interessantissimo quintetto britannico dedito al djent, un particolare sottogenere del prog metal, di cui sono considerati tra gli inventori.
C’è da dire che, rispetto al passato anche recente, la band si presenta con una formazione stabile, grazie al ritorno di Daniel Tompkins, lo storico frontman dotato di una vocalità particolare e in grado di passare da tonalità morbide a falsetti aggressivi e a parti in growl.
Resta una domanda: è davvero così speciale questo ritorno dei Tesseract?
Di sicuro, rispetto al predecessore Polaris, Sonder si caratterizza per sonorità più dure, decisamente metal, anzi djent.
In parole povere, l’album è una valida raccolta di ciò che piace agli amanti del prog. Innanzitutto, i cambi di tempi, i controtempi e i poliritmi, eseguiti con magistrale perizia dal bassista Amos Williams e dal batterista Jay Postones. Particolari e sofisticate, inoltre, le parti di chitarra, curate dallo sperimentatore (e fondatore della band) Acle Kahney, specialista della chitarra a sette corde, e dal collega James Montheit. Al riguardo, è doveroso specificare che i due axeman privilegiano il wall of suond, sviluppato sulla consueta base del downtuning (cioè l’accordatura più bassa del normale) e gli arrangiamenti, che non l’aspetto solista, ridotto all’essenziale, in perfetta aderenza ai canoni del genere.
Che sono rispettati in pieno a partire da Luminary, open track e primo singolo, che attacca con un riff in stile doom e si sviluppa su arditi cambi di tempi e controtempi, su cui Tompkins sperimenta la sua estensione, sia nella strofa iniziale, cantata in falsetto, sia nel refrain epico del coro.
Minacciosa ed evocativa, anche King si sviluppa su un tempo cadenzato e riff vagamente arabeggianti in stile Black Sabbath, alternati ad aperture melodiche cariche di atmosfera in stile new age.
Bello l’interludio costituito dai due minuti e venti di Orbital, quasi un pezzo di world musica alla Peter Gabriel, in cui i falsetti di Tompkins fanno un po’ il verso a Matthew Bellamy.
Curiosamente funkeggiante l’andamento di Juno, che si regge sul giro slappato di Williams e sui riff in controtempo, che sfociano in superbe prove d’insieme.
Lo zampino di alcune cose dei Muse più heavy si nota anche nei crescendo e nelle melodie romantiche di Beneath My Skin e Mirror Image, che citiamo assieme perché sono due brani collegati (e non a caso nella versione online dell’album sono fusi in un’unica traccia).
Smile, che è la riproposizione del singolo rilasciato dai Tesseract del 2017, si richiama al prog più inquietante dei Pain of Salvation.
Chiude l’album The Arrow, coi suoi circa due minuti e mezzo carichi di atmosfera.
Ad album finito possiamo rispondere: forse Sonder non è così speciale, ma resta comunque una prova notevole e non priva di spunti originali. Da ascoltare, anche per i non appassionati del (sotto)genere che potranno apprezzare la spiccata vena melodica del quintetto.
Ottima prova di una band in crescita artistica costante. Magari è questione di non molto tempo e i Tesseract troveranno la loro quarta dimensione.
Da ascoltare (e da vedere):
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