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Se n’è andato il papà del Manifesto

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Scompare a 84 anni Valentino Parlato, il più intelligente tra i comunisti eretici

«Con voi parlo ma non dialogo», dichiarò Valentino Parlato all’Italia Settimanale nei primi anni ’90, quando esisteva ancora il Msi e l’agonia della Prima Repubblica aveva creato una situazione fluida. Al punto che uno dei fondatori del Manifesto aveva accettato di farsi intervistare dal piccolo settimanale di quella destra che, con non troppi meriti e molta fortuna, avrebbe avuto l’Italia in mano per vent’anni.

La frase dà la misura del personaggio e della persona, che in lui coincidevano: intellettuale curioso, analista arguto, comunista rigoroso ma non intransigente, Parlato fu la punta di diamante di quella sinistra che in nome del rigore si oppose all’intransigenza delle burocrazie del Pci, necessariamente maggioritarie in un partito dove gli apparati pilotavano le basi, che si turarono il naso davanti all’invasione sovietica di Praga.

A sfogliare col senno di poi le vecchie annate del Manifesto (e quello di oggi, che cerca di conciliare letture antisistema e fremiti radical con un gergo politicamente corretto, ne è appena la pallida copia) si capisce che Parlato, al pari dei più brillanti compagni di cordata, faceva i conti con quella lacerazione tra l’utopia di un comunismo libertario – in cui coincidevano politica e sociale, difesa delle libertà e tutela dei bisogni – e la prassi di una colonizzazione culturale della sinistra italiana che, in maniera più o meno indiretta, imponeva la difesa a oltranza del burosauro sovietico.

Detto altrimenti, anche lui cercava una risposta non banale a un quesito inquietante che ha lacerato almeno tre generazioni di militanti: come essere comunisti e prendere le igieniche distanze da repressioni, carri armati, gulag e tutta quella roba che nelle burocrazie di vertice (e non solo) del Pci era conosciuta e tenuta il più possibile riservata perché si doveva sapere il meno possibile che il sogno del socialismo reale era intervallato da non pochi incubi.

Parlato e il suo gruppo non fecero la loro scelta di rottura, cioè mettere in imbarazzo Botteghe Oscure per il silenzio sulla questione cecoslovacca, per ingenuità ed estremismo. Al contrario: gli ingenui e gli estremisti in quegli anni leggevano il Libro Rosso di Mao per sostituirlo a Lenin con cui avevano rimpiazzato i Vangeli.

All’intellettuale siciliano, formatosi nella corrente amendoliana e poi vicino a Pajetta, si poteva rimproverare tutto e il suo esatto contrario, fuorché l’ingenuità.

Nato a Tripoli da genitori siciliani quando la Libia era un pezzo d’Italia, il Nostro aderì al Pcl (Partito comunista libico) e si fece espellere dalle autorità di Sua Maestà Britannica, più puntigliose nell’anticomunismo dei gerarchi di Italo Balbo, che proteggevano il mite regime di re Idris.

Col consueto cinismo, Parlato liquidò la vicenda con una battuta: fu la mia fortuna.

Ma a quella fortuna fu riconoscente senza esserne schiavo. Infatti, non abbasso la testa davanti al comitato centrale del Pci, la più rigida amministrazione di partito d’Occidente, e si fece espellere con tutti gli altri.

Intelligente, curioso, versatile (l’intellettuale come dovrebbe essere), il giornalista siciliano trapiantato a Roma è stato l’anima critica e cinica della sinistra in cui ha bacchettato di tutto e di più. Sognava? Probabilmente sì, sennò non avrebbe fatto quello che ha fatto e, soprattutto, non avrebbe continuato a farlo anche dopo essersi dimesso dal suo quotidiano, che aveva diretto a più riprese, per raggiunti limiti di età.

La morte di Parlato non è una tragedia, perché a 86 anni, raggiunti senza troppi acciacchi con l’invidiabile abitudine di 70 sigarette al giorno, si è in conto alla rovescia.

Resta un grosso danno. Anzi, un danno triplice: per la politica, per la cultura e per il giornalismo.

Parlato, infatti, è stato l’avversario ideale degli intelligenti: stimolava pungeva, metteva in discussione. Per questo era poco gradito ai furbi, che non amano farsi prendere in contropiede dall’esercizio coerente della critica e dell’autocritica. Fu la prova che si poteva essere puri e fare a meno dell’intransigenza. Ribadì che essere duri (e lui lo fu, soprattutto con sé stesso) è altro rispetto alla graniticità, che spesso è la contraffazione della durezza.

Uno di meno e mai troppo tardi, avrà commentato qualcuno, con riferimento alla sua fede comunista. Invece è il caso di dire: un altro se n’è andato e peccato che non abbia eredi intellettuali. Quando, anche in seguito all’implacabile fisiologia dell’anagrafe, se ne va un grande c’è solo da preoccuparsi 

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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