Broken: a lezione di blues contemporaneo da Walter Trout
La lezione dei padri della black music rivive nel trentunesimo album del chitarrista americano, che supera i cinquant’anni di carriera in forma artistica smagliante
Una carriera di tutto rispetto, che a rivederla alla moviola sembra una gavetta infinita. Grande espressività, sia vocale sia chitarristica, capace di esplodere in virtuosismi sofferti, di quelli che solo una più che quarantennale esperienza nel blues può ispirare. Parliamo di Walter Trout e di Broken (Provogue-Mascot 2024) il suo trentunesimo, potentissimo album.
Artista di lunghissimo corso e protagonista di una carriera in cui ha fiancheggiato i grandissimi (bastano John Lee Hooker, Joe Tex ma anche i Bluesbreakers e i Canned Heat?) e ha gestito una corposa attività solista, Trout ritorna al grande pubblico dopo un delicato trapianto di fegato. Broken, quindi, non è solo un titolo.
Ma il chitarrista del New Jersey si dimostra tutto fuorché un sopravvissuto. E ne dà prova con dodici tracce nuove di zecca e roventi.
Il tutto è ben interpretato grazie anche all’ottima backing band, composta dal tastierista-armonicista Teddy Zig Zag Andreadis (session man di lungo corso anche lui, al momento anche alla corte di Slash), dal bassista Johnny Griparic (anche lui col chitarrista dei Guns ’N’ Roses) e dal batterista Michael Leasure, altro sideman di lusso del blues. Ad arricchire il tutto, tre ospiti d’eccezione: la mitica Beth Hart, l’intramontabile Dee Snider (giusto per ribadire che molto metal viene dalla musica di quelli come Trout) e il super armonicista britannico Bill Wilde.
Con questo popò di parterre è impossibile non fare cose buone. E infatti…
Broken: dodici perle di blues rovente
Dodici. Come gli apostoli del Vangelo o come i segni dello zodiaco. Oppure come le canoniche battute del blues che Trout ha imparato a interpretare (ma anche ad amare e rispettare soffrendoci sopra) in una vita dedicata alla black music.
Iniziamo dalla prima. Broken, la title track, apre l’album in maniera coinvolgente. Il pezzo è una bella blues ballad, accompagnata da un bel tappetone di Hammond, impreziosita dal duetto suggestivo con Beth Hart e infarcita con un bell’assolo di chitarra dal vago retrogusto hendrixiano, come solo mr Trout sa fare.
L’attacco è col botto, ma il prosieguo non è da meno: con Turn And Walk Away, il chitarrista americano tenta la via del country spennellato di rock quel che basta e decorato bene dai fraseggi dell’armonica. Gioca a favore del pezzo anche un certo effetto nostalgia, dato che evoca con garbo Wanted Dead Or Alive, il classicone dei Bon Jovi di metà ’80.
Dal country allo shuffle il passo è breve e, nel caso di Trout, ben fatto. Vi provvede Courage In The Dark, un pezzone dalle atmosfere notturne, che si regge su un bel giro di basso decorato come si deve dal piano elettrico. Da applausi il cantato intenso e un po’ lamentoso del nostro e, soprattutto, l’assolo, melodico e virtuosistico allo stesso tempo.
Il blues ha più anime e uno che ha suonato con John Lee Hooker non può proprio evitare il boogie. Ed ecco che spunta la roventissima Bleed, ritmata e martellante come clichés comandano, col valore aggiunto dell’armonica di Bill Wilde che imperversa ovunque e duella con la slide guitar.
L’ariosa Talkin’ To Myself è una pausa efficace dopo tutta la colata di pentatoniche ascoltata finora: è una piece pop soul vagamente rockeggiante nei suoi e dotata di un bel retrogusto anni ’80.
Giusto il tempo di riprendere il fiato ed ecco che in No Magic (On The Street) il background di Trout si manifesta di nuovo: un bel rock blues dagli ammiccamenti folk (il cantato ricorda un po’ Dylan) e pieno di rinvii ai Canned Heat.
Con I’ve Had Enough si cambia di nuovo registro, ma in direzione opposta: il riff è tosterello, ai limiti dell’hard, la ritmica è più martellante e il refrain più rock. È proprio il minimo sindacale per duettare con un Dee Snider particolarmente tosto e ispirato.
Un romanticissimo tappeto d’archi incornicia alcuni arpeggi. È l’introduzione della dolcissima Love Of My Life, l’unica traccia strumentale dell’album, in cui la chitarra canta in maniera struggente ed evoca a tratti il compianto Gary Moore.
Con la delicata Breathe il sound si riorienta verso un pop rock dall’ispirazione soul e dal sapore deliziosamente vintage.
La seguente Heaven Or Hell alza di nuovo i toni: tempo serrato, riff decisamente tosto, ai limiti del metal. Efficace e ben concepito, è il pezzo più duro della raccolta.
I Wanna Stay, una blues ballad dolce e carica di atmosfera, placa di nuovo i toni. Anche in questo caso, il rinvio è a certo pop rock degli ultimi anni ’80.
Il conclusivo Falls Apart, un bel rock robusto dal refrain leggermente epico, riporta invece agli anni ’70. Simpatico ed efficace (e un po’ caciarone) l’uso della chitarra a dodici corde.
Walter Trout: un evergreen di gran classe
Più stagionato (bene) che invecchiato, Walter Trout riesce tenere bene il passo. Più suonanti che suonati, i suoi 72 anni sono garanzia di maturità e non presagio di declino. Niente dita anchilosate che annaspano su scale e accordi che non si è più in grado di suonare come una volta (e, a partire da Ritchie Blackmore e Jimmy Page gli esempi potrebbero sprecarsi).
Ma – e qui ritorna l’insuperata lezione del rimpiantissimo Jeff Beck – grande gusto esecutivo e tecnica sopraffina nei parametri del genere.
Con la sua varietà sonora e la sua coerenza stilistica, Broken conferma l’ottimo stato di salute musicale del chitarrista del New Jersey (per quella tout court teniamo le dita incrociate). Come tutti gli evergreen, mr Trout non può essere preso sottogamba né ignorato. Anzi, lo si deve ascoltare con grande attenzione, per capire come si deve suonare davvero il blues.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale di Walter Trout
Da ascoltare (e da vedere):
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