I Got Heaven: la trasgressione tra hardcore e indie dei Mannequin Pussy
Blasfemie e provocazioni (scontate), drammi esistenziali e urla di rabbia vera nell’ultimo album della band di Philadelphia. Trenta minuti di violenza e passione divisi in dieci canzoni
Forse non ha tutti i torti Andy Green, quando sentenzia dalle colonne di Rolling Stone che se i Mannequin Pussy fossero esplosi negli anni ’90, avrebbero fatto soldi a palate. Ora, invece, il quartetto di Philadelphia si barcamena come può, tra tour massacranti e la vita di provincia, che non è molto facile per chi prova a vivere di rock.
Peccato, almeno in parte: la formula musicale della band, in bilico tra gli opposti estremi(smi) dell’hardcore punk e di un indie pop selvaggio, non è affatto male, sebbene non originalissima.
E copre una trasgressività piuttosto di maniera – gender oriented e forzosamente blasfema – che risulta utile ad attirare l’attenzione di certa stampa più (post)ideologica che specializzata, ma poco efficace per scalare le classifiche o fare sold out.
Al netto delle valutazioni contenutistiche, I Got Heaven (Epitaph 2004), l’ultima fatica del combo della Pennsylvania, è un album ben concepito e suonato altrettanto bene. Soprattutto, ottimamente orchestrato dal produttore John Congleton, che ha amalgamato molto bene le diverse tendenze espressive della band.
Il rock resta, tosto come sempre, ma forse eseguito un po’ meglio, sebbene i virtuosismi stiano altrove. In compenso, i Mannequin Pussy sperimentano un po’ più, grazie all’ingresso del chitarrista Maxine Steen, molto bravo col synth, che ha rilevato il posto del chitarrista Paul Athanasios, il quale ha mollato tre anni fa per tentare una normale vita borghese (cioè metter su famiglia: capita dopo anni di fame e trasgressioni). Per il resto, la formazione è stabile dal 2015, grazie alla caparbietà della carismatica leader Marisa Missy Dabice (cantante, chitarrista e, all’occorrenza, bassista), del bassista e cantante Colins Bear Regisford e della batterista Kaleen Reading.
Anticipiamo subito due cose, di cui l’ascoltatore più esperto si accorgerà da sé: non è tutto oro quel che luccica in I Got Heaven e il brillio non è tantissimo. Però vale la pena, perché è comunque un prodotto genuino.
I Got Heaven: trenta minuti di rabbia e amore in dieci canzoni
Al netto della blasfemia banalotta del testo, l’open track I Got Heaven è un gran bel pezzo: riff duro, refrain minimale (in pratica, uno spoken urlato) e un bel coro melodico e arioso a fare da contrasto.
Loud Bark segue un percorso inverso: riff minimale e refrain dapprima sussurrato. Poi il crescendo fino al coro urlato.
Nothing Like poggia su una ritmica più leggera, giocata su un bell’incrocio tra chitarra arpeggiata e basso metallico (un po’ alla U2 vecchia maniera), poi crescendo con chitarrone più pesante. Il tutto per contornare una melodia romantica, rivista e scorretta da Dabice. Degno di nota il solo di Steen.
Con la melodica e suggestiva I Don’t Know You i Mannequin Pussy virano sul pop anni ’80, grazie anche ai ricami del synth. Resta un dubbio: il synth serve ad alleggerire gli accordoni distorti di chitarra e basso, o, viceversa, questi ultimi servono a dare sostanza al refrain?
Gli anni ’80 fanno capolino anche nel giro di basso e nel refrain di Sometimes, che si riallaccia al punk solo con gli accordi distorti che accompagnano il coro.
Il punk si riprende i suoi spazi con tutti gli interessi nell’isterica Ok? Ok! Ok? Ok!, poco più di due minuti di violentissimo hardcore, che si basa sul duetto urlatissimo tra Regisford e Dabice.
Con la seguente Softly, che evoca anche i Rem grazie alla sua melodia ariosa, si torna su lidi più tranquilli.
Ma è solo una pausa prima della cavalcata ferocissima di Of Her, una sfuriata di hardcore violentissimo e crudo tutto da pogare.
Ancora più pesante la seguente Aching, che evoca a botte di urla i Corrosion Of Conformity e i Dead Kennedys.
Chiude con sentimento Split Me Open, una bella power ballad. Bella e sincera, visto che tocca tematiche intime e delicate che riconducono al vissuto di Marisa Debice.
Un caleidoscopio di emozioni di trenta minuti divisi in dieci canzoni. Anche il timing è ai limiti del punk.
Mannequin Pussy: maturi con bizzarria
Tosti e aggressivi anche nei momenti più melodici, cattivi persino nell’intimismo, i Mannequin Pussy celebrano con I Got Heaven una maturità musicale bizzarra e malata.
Ma, tutto sommato, vissuto con una forte sincerità personale: tutti e quattro i musicisti arrancano per sbarcare il lunario. In particolare, Maxine Steen, trans dichiarato che cerca di finanziare la propria trasformazione chirurgica con un crowdfunfing, si barcamena come facchino e traslocatore e Kaleen Reading dà lezioni di batteria dopo aver smesso di fare la guardia giurata. Tutti suonano per tenersi vivi. Vivono per il rock, non riuscendo a vivere di rock, a dispetto delle carezze di tanti critici.
I Mannequin Pussy meritano molto più dei complimenti ipocriti (e limitati) di chi confonde la musica coi contenuti. E vale la pena seguirli: sono arrivati dove sono arrivati coi loro sforzi. E già questo conta. A dispetto dei risultati e delle sbavature.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale dei Mannequin Pussy
Da ascoltare (e da vedere):
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