Invincible Shield: i cinquant’anni di gloria dei Judas Priest
Coi quattordici, durissimi brani del loro diciannovesimo album in studio, i papà del metal celebrano mezzo secolo di musica. Il tempo passa, ma la band di Birmingham sembra averlo fermato…
Primo incipit: i Judas Priest tornano, a sorpresa ma non troppo, con Invincible Shield (Columbia Records-Sony Music 2024) e danno il loro contributo a un’annata più che positiva per il rock duro. Peccato solo che manchi l’originalità e che la produzione non sempre compensi le cattiverie del tempo, che su Rob Halford, ad esempio, pesano un po’ troppo.
Secondo incipit: i Judas Priest tornano sulle scene metal e non solo col recente Invincible Shield (Columbia Records-Sony Music 2024), un nuovo classico, composto come si deve e prodotto secondo tutti i crismi, con un Rob Halford ancora a suo agio a dispetto del tempo che passa.
Scegliete voi quale preferite, ma è doveroso avvisarvi di due cose.
La prima: i due attacchi significano la stessa cosa e si differenziano solo nella maggiore o minore cattiveria. Infatti, è vero che l’ultimo, recente album dei Priest non sia il massimo dell’originalità. Tuttavia, un classico non può essere originale, tantomeno sperimentale (i leoni di Birmingham hanno sperimentato come si deve a suo tempo). Inoltre, è vero che un cantante come Halford non può ripetere a settantatré anni le performance di trenta-quaranta anni fa.
Seconda cosa: i superbig come i Judas Priest riescono ad essere ancora divisivi tra i critici e aspiranti tali più o meno improvvisati. Infatti, i due attacchi rievocano le tipologie di recensioni che hanno accompagnato l’uscita di Invincible Shield.
Da un lato, i pignoletti perenni, che si divertono a esercitarsi sui classici per trovarvi dei difetti. Dall’altro i fan a oltranza, che si ostinano a vedere il bicchiere mezzo pieno a tutti i costi.
Ciò che conta è che i Priest ci siano ancora, a dispetto del Parkinson che ha colpito il grande Glenn Tipton, a dispetto del tumore con cui ha dovuto fare i conti Halford e, come se non bastasse, a dispetto dell’aneurisma coronarico che ha colpito Ritchie Faulkner, sul quale grava da oltre un decennio l’onere di sostituire il leggendario K. K. Downing. Poi, certo, la produzione di Andy Sneap ha fatto il resto e tutto lascia credere che il sound manager e chitarrista si sia dedicato alle non poche parti che Tipton non è verosimilmente più in grado di eseguire. La formazione è completata dal bassista e fondatore superstite Ian Hill e dal batterista Scott Travis, una certezza granitica sin dai tempi di Painkiller. Ma ora facciamo parlare la musica, non senza un’ultima avvertenza: ci occupiamo della versione de luxe di Invincible Shield, che comprende tre bonus track per un totale di quattordici pezzi.
Invincible Shield: quattordici fulmini metal dei Judas Priest
Si è ripetuto più volte che Invincible Shield sia pieno zeppo di autocitazioni priestiane. È vero.
Infatti, l’attacco di Panic Attack, marcato a fuoco dalle guitar synth, ricorda (ma parecchio alla lontana) l’incipit di Turbo Lover. Ma è solo un attimo. Il resto del brano, a partire dal riffone introduttivo, il primo di una serie schiacciaorecchi, e la ritmica pesante e squadrata sono debitori non poco di Painkiller.
Buona la performance di Halford, notevolissimi i soli delle chitarre.
Doppia cassa in gran spolvero, tempi speed e riff assassini spadroneggiano in The Serpent And The King, in cui il frontman esibisce il suo storico screaming (quanto questa performance sia ripetibile dal vivo è un altro discorso…). In questo caso, la filiazione da Painkiller è ancora più diretta.
Sullo stesso registro power speed Invincible Speed, che tuttavia osa di più nei bridge epici e nelle grandi aperture melodiche degli assoli. Una title track coi fiocchi, non c’è che dire.
Siccome un album tutto tirato non sarebbe nelle corde neppure dei Judas Priest, ecco arrivare il primo rallentamento: la sinuosa Devil In Disguise, dal tempo cadenzato, dalle linee vocali leggermente più melodiche ma con un riffing sempre tosto e serrato, che rinvia agli anni ’80 (il bridge arioso e il coro da stadio si rifanno a Defenders Of The Faith, per capirci).
L’aspetto melodico e ottantiano risulta ancora più accentuato nella successiva Gates Of Hell, che contiene pure qualche ruffianata aor (per capirci, anche questa potrebbe provenire dal citato Defenders Of The Faith o da Ram It Down). Niente di male in questo, ci mancherebbe: i Priest hanno sempre avuto un lato melodico, tutt’altro che disprezzabile anche nelle loro fasi più dure.
Una intro chitarristica carica di eco e di delay porta alle melodie epiche e suggestive di Crown Of Horns, che ricorda alcune cose del Ronnie James Dio di Sacred Heart. Bella la parte centrale, più lenta e ancora più melodica, in cui la canzone diventa quasi una ballad. Ma è solo un passaggio rapido, perché coi soli di chitarra si ritorna in un mood più hard.
Dopo questo break melodico, tornano i Priest più tosti con la potente e tiratissima As God My Witness, che mescola potenza, epos e melodia e sembra rinviare a Night Crowler e a Nostradamus.
Di nuovo un rallentamento in Trial By Fire. Ma il calo di velocità non vuol dire perdita di potenza o durezza. Anzi, il contrasto tra i controtempi pesanti e il riffing granitico, da una parte, e l’intensità melodica, all’altra, dà al pezzo un bel pathos.
I Judas Priest, da buoni padri nobili del metal, non potevano certo evitare un doppio omaggio: al doom e alla loro città. Ovvero, al genere inventato dai Black Sabbath, come loro originari di Birmingham. L’omaggio arriva, appunto, con la sulfurea Escape From Reality, che rievoca alla grande la lezione di Tony Iommi (e forse non è un caso che la voce di Halford in alcuni tratti rievochi quella di Ozzy).
Con i tempi più sostenuti e il refrain catchy di Sons Of Thunder, i Priest tornano a lidi più ’80. Il brano è forte e studiato per la resa live, segno che il tempo dell’addio per i britannici è ancora lontano.
Chiude l’epica Giants In The Sky, a giudizio di chi scrive la canzone più bella dell’album: un pezzo epico e commovente. Un amarcord dedicato al già menzionato Ronnie James Dio e a Lemmy Kilminster, altri due padri nobili con cui il quintetto britannico ha diviso parecchia strada.
Fin qui l’album. Le tre extra, prodotte da Tom Allom, sono tutt’altro che male, a dispetto dei pareri di non pochi critici improvvisati. Ciò vale per l’ottantiana Fight For Your Life, in cui Halford fa sfoggio di uno screaming degno dei suoi anni d’oro. E vale per la pesante Vicious Circle.
Degna di nota anche l’oscura The Lodger, carica di atmosfere gotiche e dallo sviluppo tutt’altro che scontato.
Invincible Shield: comunque vada è un gioiello
Tutto bello, tutto giusto purché marchiato Judas Priest? Proprio no: Invincible Shield è un gran bell’album a prescindere che sia un prodotto dei Judas Priest.
Semmai, il logo della band di Birmingham è garanzia di riuscita perché testimonia lo spessore artistico e professionale che deriva da un’esperienza importante, di cinquanta anni di carriera e di diciannove album di studio più tantissimi tour in giro per il mondo. E non è davvero poco.
Come tutti i big di lungo corso, i Judas Priest non hanno mai avuto vita facilissima con gli addetti ai lavori, più o meno professionali.
Hanno subito critiche diverse e persino contrastanti. Sia quando hanno sperimentato (è il caso delle suggestioni techno pop di Turbo o delle parentesi thrash industrial della seconda metà dei ’90 e dei richiami prog di Nostradamus) sia quando non l’hanno fatto.
Ora non è il caso di criticarli perché richiamano sé stessi: dopo mezzo secolo di musica, ci sta.
E il pubblico, col suo istinto più sano se n’è accorto: Invincible Shield non ha fatto in tempo a uscire che ha scalato subito le classifiche di mezzo mondo e di tutt’Europa, Italia inclusa.
Questo successo è la prova di come si possa essere freschi da ultrasettantenni (ciò vale per il settantatreenne Rob Halford e per il settantaseienne Glen Tipton) a dispetto di acciacchi e malattie. Ed è la prova di come il tempo che passa sia sinonimo di esperienza e crescita artistica.
E allora godiamoci come si deve Invincible Shield, con una speranza e con un augurio: di poter ascoltare, a breve, un altro album di pari valore.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale della band
Da ascoltare (e da vedere):
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