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Prima delle foibe: il terrorismo panslavista e la lotta italiana

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A quasi ottant’anni resiste la visione ufficiale secondo cui quella dei titini fu solo guerra antifascista. Una critica allo storico negazionista slovenoJoze Pirjevec

Le foibe sono abitualmente riconosciute dagli storici quale parte di un progetto di pulizia etnica compiuto dagli jugoslavi ai danni degli italiani in Venezia Giulia e Dalmazia. Talora persiste ancora l’altra, vecchia ed assai contestata, ipotesi secondo cui si sarebbe invece trattato di una vendetta contro i fascisti, che è stata ripresa alcuni anni fa dallo sloveno Joze Pirjevec nel suo libro Foibe Una storia d’Italia (Torino 2009).

L’ipotesi della reazione al fascismo sarebbe da respingersi già solo per il fatto, incontestabile, che gli scontri interetnici in Venezia Giulia e Dalmazia iniziarono non nel 1922 e neppure nel 1918, ma più di mezzo secolo prima sotto il dominio dell’Austria, quando si realizzò di fatto un’alleanza fra lo stato imperiale ed i nazionalisti slavi in funzione anti-italiana e ci si propose la de-italianizzazione di queste regioni. Si ebbero così la slavizzazione, totale o parziale, della lingua amministrativa in molte località, modifiche forzose della toponomastica e dell’onomastica, il favoritismo verso l’immigrazione slava e le espulsioni di 35.000 italiani dalla Venezia Giulia, la nomina d’ecclesiastici slavi in diocesi italiane e la slavizzazione della  liturgia, la chiusura di scuole italiane (che quasi scomparvero in Dalmazia) ed il rifiuto di una università in lingua italiana, forme di censura alla cultura italiana, chiusura di giornali ed associazioni patriottiche, brogli elettorali, una diffusa violenza contro gli italiani (ad opera sia di squadracce di nazionalisti slavi, sia di membri dell’esercito e della polizia), la deportazione in massa d’italiani (tali di nazionalità, anche se sudditi imperiali) in campi di concentramento durante il primo conflitto mondiale etc.

Di tutto questo nel libro di Pirjevec non vi è quasi traccia alcuna, poiché egli si limita a pochi e vaghi accenni ad un Kulturkampf (alla lettera, lotta culturale) in cui gli slavi si sarebbero visti negati i loro diritti dagli italiani. In realtà accadde l’opposto, poiché i nazionalisti jugoslavi potevano contare sull’appoggio dello stato centrale contro gli italiani.

Ad esempio, il Pirjevec riporta una fuggevole menzione alla «violenta rivolta di Pirano del 1894» (p. 10), malgrado si sia trattato di una collettiva e pacifica protesta, basata su disobbedienza civile, contro un’imposizione del bilinguismo negli atti amministrativi in una città a schiacciante maggioranza italiana, in cui la cultura scritta era quasi totalmente italiana ed in cui anche i pochi slavi conoscevano l’italiano. La famosa rivolta di Pirano fu incruenta, malgrado Pirjevec la definisca «violenta». Egli omette però di ricordare sia l’intervento minaccioso delle autorità imperiali con l’invio di reparti dell’esercito e persino di una nave da guerra, sia il fatto che l’obbligo del bilinguismo fu conservato. È alquanto singolare poi che egli accenni a Pirano ed ometta di parlare dei moltissimi casi di violenza contro gli italiani, le loro associazioni, le loro proprietà, avvenuti nel periodo 1866-1914, quale ad esempio il massacro dei portici di Chiozza del 1868. In breve, gli italiani sotto la Duplice Monarchia austro-ungarica furono perseguitati e non persecutori.

Per gli anni 1918-1941, Pirjevec segnala le violenze fasciste, ma omette di parlare di quelle dei nazionalisti slavi, che erano organizzati in gruppi terroristici. Ad esempio, questi sostiene che l’incendio di un centro culturale slavo a Trieste ubicato nell’hotel Balkan sarebbe avvenuto «quale rappresaglia per gli incidenti scoppiati a Spalato fra la popolazione e alcuni marinai italiani» (Ibidem, p. 21). Egli trascura però particolari decisivi, evitando di spiegare che in questi “incidenti” erano morti uccisi il comandante Tommaso Gulli ed il motorista Aldo Rossi. Inoltre, l’assalto al Balkan non avvenne per reazione a questi omicidi, ma per un altro assassinio compiuto a Trieste durante il quale morì Giovanni Nini, cuoco di 17 anni originario di Novara. Buon ultimo, l’incendio del Narodni dom a Trieste fu dovuto al conflitto a fuoco intercorso fra un gruppo paramilitare slavo annidato all’interno ed un reparto dell’esercito. Gli slavi erano armati ed all’avvicinarsi dei civili italiani (trattenuti da un cordone di militari e poliziotti, circa 400 uomini) risposero sparando e gettando almeno una bomba a mano, che ferì mortalmente Luigi Casciana, tenente di fanteria, colpendo inoltre altre 8 persone. A quel punto i militari risposero al fuoco.

Una contestabile ricostruzione dei fatti si ritrova anche più aventi nel testo. Il 24 marzo 1929, giorno delle elezioni nazionali di quell’anno, un gruppo di istriani si stava recando a Pisano per votare, quando un gruppo di quattro slavi si mise a sparare. Finì così ucciso Ivan Tuhtan, un contadino padre di dieci figli, mentre un altro venne ferito. Si era trattato di un attentato terroristico compiuto dal Tigr, la più nota fra le organizzazioni terroristiche panslaviste che operarono in Venezia Giulia nel periodo fra le due guerre mondiali. Il Tigr si rese responsabile, fra l’altro, di diversi omicidi, dell’incendio di scuole, dell’attentato alla sede del giornale Il popolo di Trieste etc. Quale reo dei fatti del 24 marzo fu condannato tale Vladimir Gortan, ritenuto l’organizzatore dell’assalto. Pirjevec riporta invece così l’accaduto: «Nel 1929, in occasione delle elezioni che avrebbero dovuto rappresentare un plebiscito per il regime, un membro croato del tigr, Vladimir Gortan, organizzò un tentativo per impedire ai fascisti di convogliare i contadini a votare a Pisino, nel corso del quale parti un colpo, uccidendone uno.» (Ibidem, pp. 23-24)

L’attentato terroristico, in cui un gruppo di quattro uomini spara addosso ad elettori che stanno andando a votare, è interpretato quale «un tentativo per impedire ai fascisti di convogliare i contadini a votare», sebbene il gruppetto assalito fosse semplicemente guidato da un maestro comunale. Inoltre Pirjevec dice che «partì un colpo». Lo storico sloveno non scrive che i membri del Tigr spararono, ma che «parti un colpo», come se una pallottola fosse dotata di autocoscienza e volontà proprie, oppure si trattasse di un fenomeno atmosferico. Infine, costui conclude dicendo che il colpo partito aveva ucciso un uomo: «uccidendone uno». L’identità dell’assassinato rimane ignota al lettore, che non riesce a comprendere se egli fosse un fascista o un contadino che andava a votare. Per la cronaca, Tuhtan era di etnia croata e pare anche antifascista.

Insomma, leggendo Pirjevec quella che fu un’aggressione terroristica compiuta con armi da fuoco contro elettori che stavano andando al seggio diventa un «un tentativo per impedire ai fascisti di convogliare i contadini a votare», durante il quale «parti un colpo», quasi fosse una disgrazia od una fatalità, «uccidendone uno». È una descrizione che si potrebbe attagliare ad un trafiletto di cronaca in cui si racconta di un’automobile che sbanda sul ghiaccio investendo un pedone, non ad un assalto a mano armata perpetrato dai membri di un associazione terroristica.

La stessa analisi di Pirjevec della lunga serie di uccisioni e massacri noti come “infoibamenti” è discutibile. Ad esempio, egli così descrive un eccidio in cui circa 200 (duecento) italiani furono uccisi dai partigiani: «In questa caotica situazione di panico, i capi partigiani di Pisino non seppero far altro dei circa 200 prigionieri ancora sotto il loro controllo che passarli per le armi» (Ibidem, p. 47), per poi commentare: «L’equazione italiani-fascisti, che si suppone usata per condannarli, può sembrare a mente fredda sommamente ingiusta; ma a quel tempo poteva non esserlo» (Ibidem, pp. 47-48). L’affermazione non è molto chiara: allora costoro furono uccisi perché ed in quanto italiani, come asseriscono gli storici che parlano di pulizia etnica slava?

E quinci sian le nostre viste sazie.

 Marco Vigna

 

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