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Tutta un’altra storia. Un’operazione verità sul dramma di Pontelandolfo

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Il giornalista e scrittore Giancristiano Desiderio interviene con il suo libro “Pontelandolfo 1861” sull’episodio chiave della repressione del brigantaggio. I bersaglieri non furono macellai né fecero rappresaglie, ma restituirono all’Italia una zona a rischio e riportarono l’ordine e la sicurezza con grandi sacrifici

Forse centoquarantasette pagine risultano pochine per un libro che si propone di fare chiarezza su un episodio storico delicato e pesante allo stesso tempo.

Ma per fortuna la qualità non si misura al chilo o per numero di pagine e Giancristiano Desiderio ha fatto centro.

Giancristiano Desiderio

Il giornalista e scrittore di Sant’Agata dei Goti (ma pompeiano di nascita) è intervenuto sulla vicenda di Pontelandolfo con Pontelandolfo 1861. Tutta un’altra storia, un libro annunciato da oltre un anno e uscito a gennaio per i tipi della Rubbettino.

Una combinazione che sa di metafora, visto che per la terza volta una casa editrice meridionale (la prima volta è toccato a Laterza con un importante studio di Alessandro Barbero sul forte di Fenestrelle e la seconda alla romana Salerno con la ricerca di Maria Teresa Milicia su Cesare Lombroso) si contrappone alle tesi dei revisionisti borbonizzanti (Pino Aprile e Gigi Di Fiore su tutti) divulgate dall’editoria del Nord (Piemme e Utet).

La copertina di Pontelandolfo 1861. Tutta un’altra storia

Anche il titolo è una metafora: Desiderio non parla di massacri o carneficine. Non tocca le corde della retorica ma dà al lettore un pamphlet densissimo, in cui pignoleria scientifica e spirito polemico si intrecciano alla perfezione.

Quel che ci vuole per smantellare la leggenda nera costruita ad arte sul presunto sterminio di Pontelandolfo, per sottrarre il brigantaggio e la sua repressione alla storia e consegnarli alla politica, com’è avvenuto sin da subito e quasi senza soluzione di continuità, a partire dal filosofo Giuseppe Ferrari, che lanciò le prime denunce dalla Camera dei Deputati, dove sedeva nei banchi della Sinistra, a finire coi revisionisti antirisorgimentali. Passando per Gramsci, di cui si cita ogni tre per due la celebre frase attribuitagli da Togliatti: «Fino all’avvento della Sinistra al potere, lo stato italiano ha dato il suffragio solo alla classe proprietaria, è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio di briganti».

Il generale Enrico Cialdini e il suo stato maggiore

Non è il caso di entrare nel merito dell’uso distorto di un pensatore come Gramsci, di cui gli autori sudisti hanno abusato sin troppo. Al riguardo, Desiderio dà nel suo libro un’importante indicazione di metodo, recupera la lettura crociana e ridimensiona non poco la visione militante dell’intellettuale sardo:

«Eppure, questa storia nazionale, non priva di sofferenze e lutti, anzi ricca di drammi e tragedie come tutte le storie nazionali degli Stati europei, è stata interpretata con gli occhi dell’ideologia della storiografia di partito che ha trasformato il disorientamento sociale e le ribellioni contadine del Sud animate dal clero in una guerra di popolo». [pag. 21].

Antonio Gramsci

Vale la pena di notare che questa impostazione sopravvive in non poco revisionismo antirisorgimentale. Ne è un esempio vistoso il recente Briganti. Controstoria della guerra contadina nel Sud dei Gattopardi (Utet, Milano 2017), in cui Gigi Di Fiore riprende lo schema gramsciano. E viene il sospetto che ricorrere a questo schema sia un escamotage adottato dagli autori borbonizzanti più preparati per evitare di cadere nella doppia trappola del nostalgismo o degli schemi reazionari di Ancien Regime. Ma la concezione gramsciana, che era normale nelle opere di autori dello scorso secolo (si pensi ai lavori di Franco Molfese, che risalgono agli anni ’60) oggi rischia di essere un vero e proprio ferrovecchio, se non adeguatamente storicizzata. Sul punto, Desiderio è di una precisione chirurgica:

«La lettura che del Risorgimento ha dato il marxismo di Antonio Gramsci aveva come suo scopo non la comprensione della storia ma la creazione della coscienza di classe che con la classica divisione in buoni e cattivi, oppressi e oppressori, servi e padroni, mirava alla diffusione della ideologia comunista e alla affermazione della tirannia degli intellettuali del Pci (sugli stessi contadini e proletari). Un capolavoro della storiografia di partito che – con tutte le notizie, informazioni, dati – rimane pur sempre storiografia di partito» [pag. 21].

Torniamo a Pontelandolfo, la cui tragedia è più o meno nota nelle sue linee generali: il paese del Beneventano, assieme al vicino Casalduni fu oggetto il 14 agosto del 1861 di un pesante intervento militare, ordinato dal generale Enrico Cialdini, plenipotenziario per la repressione del brigantaggio, ed eseguito da due colonne mobili di bersaglieri, comandate dal colonnello Pier Eleonoro Negri e dal maggiore Carlo Melegari. I due paesi, in cui operava la banda del brigante Cosimo Giordano, furono messi a ferro e fuoco. In particolare, a Pontelandolfo vi furono anche delle vittime civili.

Briganti e carabinieri in un’immagine d’epoca

Proprio il numero dei morti è stato il primo punto che ha diviso gli storici ed è diventato oggetto di una contesa infinita e tutto sommato inutile: calcolate dapprima nell’ordine delle centinaia o delle migliaia, le vittime civili sono stare ridimensionate nell’ordine delle decine e c’è chi, come Davide Fernando Panella, ha fornito la cifra precisa, sulla base di documenti e testimonianze d’epoca, di tredici morti.

Anche se ci si limitasse a questa macabra contabilità, di cui tiene conto anche Desiderio, la narrazione della tragedia di Pontelandolfo cambierebbe non poco: la strage ci fu senz’altro, ma non in proporzioni tali da far parlare di massacro o carneficina. E fu decisamente inferiore a quella subita dai militari della colonna comandata dal tenente Cesare Augusto Bracci, inviata in ricognizione a Pontelandolfo e completamente sterminata l’11 agosto 1861 dai briganti e dai contadini locali, con un totale di 41 morti.

Pontelandolfo oggi

Ma l’intervento di Negri e Melegari fu anche la fase conclusiva di un dramma iniziato il 7 agosto, in seguito all’ingresso della banda di Giordano a Pontelandolfo.

Giordano e i suoi occuparono il paese con il beneplacito dell’arciprete Epifanio De Gregorio, fecero fuggire il sindaco Lorenzo Melchiorre e proclamarono un effimero governo provvisorio, durante il quale si verificarono disordini e furono uccise quattro persone: Angelo Tedeschi, Agostino Vitale, l’esattore Michelangelo Perugini e Libero Rocco D’Occhio, quest’ultimo su ordine diretto di Giordano.

Briganti in un’illustrazione d’epoca

Sulla base di questo quadro, a dir poco complicato, si può parlare al massimo di guerra civile e, a voler tentare un bilancio tra torti e ragioni, si ricava che il comportamento dei militari non fu criminale, come invece lo ha raccontato Pino Aprile in Terroni.

A questo punto è doveroso porsi due domande: cosa aggiunge di nuovo alla vicenda di Pontelandolfo il pamphlet di Desiderio? Perché, come recita il titolo, è Tutta un’altra storia?

Lo scrittore beneventano smentisce la tesi, finora prevalente, secondo cui l’intervento di Negri e Melegari fu una rappresaglia ordinata da Cialdini per vendicare la strage dei soldati di Bracci:

«L’ordine del generale Enrico Cialdini al colonnello Pier Eleonoro Negri non segue ma precede il massacro dei soldati del tenente Cesare Augusto Bracci a Casalduni» [pag.22].

Infatti:

«La strage dei soldati è della sera dell’11 agosto, mentre l’ordine di Cialdini è del 10 agosto e riguarda la occupazione di Pontelandolfo da parte della banda di giordano» [pag. 22].

C’è da dire che questa lettura, basata su una cronologia rigorosa, è stata in buona parte anticipata da Alfredo Zazo sin dall’immediato dopoguerra (in particolare nel numero XXIV di Samnium, maggio-agosto 1851, in cui si evidenzia la sfasatura tra l’ordine di Cialdini e la sua esecuzione).

Ad ogni buon conto, grazie a questa interpretazione «lo schema classico con cui quegli avvenimenti sono stati finora raccontati e giudicati – il massacro dei soldati e la rappresaglia – non regge più».

In conclusione:

«L’azione militare su Pontelandolfo non nasce come punizione, vendetta, castigo bensì come riconquista di un’area del Sannio in cui la reazione borbonica manovrando bande armate e risentimento sociale si era imposta e, se non fronteggiata, avrebbe potuto trascinare altri comuni nell’avventurosa anarchia».

La dinamica dei fatti è descritta approfonditamente nei capitoli che costituiscono il blocco centrale di Pontelandolfo 1861 (da pagina 53 a 83), a cui rinviamo. È inutile scendere nei dettagli se non per ribadire un concetto fondamentale: le truppe di Negri e quelle di Melegari si incrociarono quasi per caso alle porte dei due paesi, perché Negri aveva ricevuto l’ordine in ritardo e Melegari fu inviato sul posto proprio perché il suo collega non era intervenuto tempestivamente, anche perché impegnato in altre operazioni.

C’è di più: i briganti evacuarono da subito Casalduni, perché indifendibile e perché volevano tendere un’altra trappola ai soldati, che solo l’arrivo delle altre truppe riuscì a sventare.

Ciò spiega perché a Casalduni non ci fu alcun morto e perché a Pontelandolfo i morti furono solo i tredici che non vollero scappare o non vi riuscirono.

Per corroborare il tutto, Desiderio analizza alcuni documenti d’epoca (la Memoria di don Battista Mastrogiacomo, parroco di Fragneto Monforte, il libro dei morti della parrocchia del Santissimo Salvatore di Pontelandolfo, redatto dai canonici Pietro Biondi e Michelangelo Caterini, che sostituì il fuggiasco don De Gregorio, la lettera della nobildonna Carolina Lamberti e l’intervista al sergente Raniero Sacchi, l’unico scampato della truppa di Bracci, al giornale milanese La Perseveranza il 19 agosto 1861). La comparazione di questi documenti, tra l’altro già editi ma ignorati o minimizzati da molti autori revisionisti, conferma sia il basso numero di morti civili sia la dinamica degli avvenimenti sostenuta dall’autore di Pontelandolfo 1861.

È il momento di tirare i fili del discorso su Pontelandolfo, la cui tragedia non ha mai smesso di inquinare la politica perché in molti, sull’esempio del romanziere Carlo Alianello, hanno tentato di sottrarla alla storia per trasformarla in leggenda nera.

Il libro di Carlo Alianello

A Pontelandolfo non ci sarebbe stata alcuna rappresaglia ma solo un’operazione che oggi chiameremmo di polizia militare in una zona oggettivamente messa a rischio da fenomeni di brigantaggio in cui la spinta politica coesisteva con altre motivazioni, sociali e criminali, e non era neppure prioritaria.

Pontelandolfo, inoltre, fu il teatro di una tragedia enorme, piena di vittime e in cui i carnefici e i cattivi furono davvero pochi: essenzialmente i comitati borbonici, l’arciprete don Epifanio De Gregorio e i briganti della banda di Cosimo Giordano. Per il resto ci furono solo vittime: i civili uccisi dai briganti, i militari di Bracci e i civili uccisi dai bersaglieri durante il terribile Ferragosto di fuoco.

La rivista di Alfredo Zazo

Inoltre, lo stesso ruolo della popolazione dei paesi sannitici è molto meno netto di quel che vorrebbero i revisionisti antirisorgimentale: lo dimostra il comportamento tenuto dagli abitanti di Pontelandolfo il 21 dicembre 1861, quando assieme ai militi della Guardia Nazionale e a tre carabinieri respinsero i briganti che tentavano di entrare nuovamente in paese. Quest’ultimo episodio dovrebbe far capire il peso avuto, oltre che dal malcontento politico, dalla nostalgia e dalla crisi sociale, dal potere intimidatorio dei briganti, sia negli avvenimenti del Beneventano sia in tutte le altre zone ad alto rischio brigantaggio.

A questo punto è doverosa un’altra precisazione: se anche la tesi di Desiderio non resistesse al vaglio degli storici e quindi fosse confermata l’ipotesi della rappresaglia, ciò non servirebbe a incriminare il comportamento dei militari e di Cialdini. Per un semplice motivo: il diritto di rappresaglia ha avuto sempre una sua legittimità, anche al di fuori delle contese tra Stati sovrani, e non è detto che fosse inapplicabile anche a casi come quello di Pontelandolfo, in cui i briganti si richiamarono formalmente all’autorità di Francesco II di Borbone e istituirono un governo a suo nome.

Inoltre, è vero che la repressione del brigantaggio fu considerata dalle autorità politiche e militari un’operazione di polizia e non un intervento bellico, anche per ovvie ragioni di politica estera. Ma è altrettanto vero che la gestione degli stati d’emergenza e il potere di bando dei comandanti militari avevano meno limiti legali nelle Costituzioni degli Stati liberali rispetto a quelli che avrebbero avuto a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Non è il caso di andare oltre nella disamina giuridica di questo aspetto del problema, che fu tuttavia tenuto presente dai vertici politici del Paese e motivò l’elaborazione della legge Pica, proprio allo scopo di disciplinare meglio la repressione del brigantaggio. Certo, il diritto è noioso, ma ciò non toglie che abbia i suoi diritti, anche di fronte alla solidità delle vicende storiche.

Benedetto Croce

Il merito più grosso di Pontelandolfo 1861 consiste proprio nel suo essere un pamphlet, un libro di lotta, stavolta non in favore di rivoluzioni presunte ma della cosa più rivoluzionaria: la verità. E questa verità è più forte delle leggende imbastite ad arte, che hanno avuto anche esiti sgradevoli, tra cui la proposta di intestare una piazza di Cerreto Sannita a un personaggio quantomeno dubbio come Cosimo Giordano.

E questa verità racconta di un periodo turbolento, di cui hanno provato ad approfittare in tanti, tra cui i comitati borbonici e quelle porzioni di clero e notabilato legate ad essi. Questa verità racconta come una leggenda in parte creata ad arte da ambienti reazionari sia stata utilizzata in seguito dalla propaganda comunista e abbia alimentato a lungo la polemica di un certo estabilishment culturale.

Questa verità smaschera, infine, le mistificazioni di presunti storici, funzionali a seminare odio e a rimpinguare le casse di qualche editore e il portafoglio di pochi autori.

Per dirla con Desiderio, che ripete l’insegnamento di Croce, è la storia «che libera» dagli ingombri di un passato che altrimenti non passerebbe.

Già: tutta un’altra storia.

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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