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Una sfida tra boss: sangue e morte alle porte di Cosenza

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Francesco De Marco sfida il suo boss, Luigi Pennino. Col loro duello, tragico e rusticano, la malavita della città inaugura il “suo” dopoguerra e inizia a cambiare volto

Ancora non erano mafiosi e non lo sarebbero diventati per un bel po’.

Eppure i malavitosi di Cosenza sapevano già di leggenda. Di leggenda nera.

I loro nomi riempivano rapporti di Pubblica sicurezza, dominavano le cronache (anche a dispetto delle censure del fascismo) e passavano di bocca in bocca.

Parliamo, in questo caso, del mitico Luigi Pennino, detto ’u Penninu, attivo tra il Ventennio e gli anni ’50, e di altri personaggi, come ad esempio Francesco De Marco, detto ’u Baccu e Michele Montera.

I tre facevano parte dello stesso gruppo e, in particolare, Baccu e Penninu erano legatissimi.

Antonio Nicaso

Poi le cose cambiano. Montera si mette in proprio e fa concorrenza a Penninu, che entra ed esce di galera con accuse non leggerissime: tra queste, lesioni e omicidio.

Ma anche Baccu si ribella a don Luigi. E la paga cara.

Prima di procedere oltre è doverosa un’avvertenza: il tragico duello tra Pennino e De Marco è riportato da alcuni testi, tra cui si cita Cosenza ’ndrine sangue e coltelli. La criminalità organizzata in Calabria, di Antonio Nicaso, Nicola Gratteri e Valerio Giardina (Pellegrini, Cosenza 2009).

Tuttavia, su questo episodio non esiste documentazione originale consultabile presso gli archivi di Stato. Invitiamo perciò il lettore a prendere il racconto con le pinze: di sicuro è verosimile, tuttavia non è provato. Non del tutto, almeno.

Una mala “bastarda”

Nella prima metà del XX secolo a Cosenza c’era una malavita effervescente, che tuttavia non si può definire mafia.

Il motivo è sociologico: i traffici dei malavitosi cosentini si basano sulla prostituzione. E il lenocinio, secondo gli statuti dell’Onorata Società (il nome che allora la ’ndrangheta dava a sé stessa) era uno di quegli strani mestieri che impedivano al delinquente di considerarsi uomo d’onore.

Una condizione che la mala bruzia si sarebbe trascinata fino agli anni ’70, quando la terza generazione di guagliuni ’i malavita avrebbe tentato il salto di qualità, in parte riuscendoci, sotto la guida di altri boss come Franco Pino, Antonio Sena, Franchino Perna e Mario Pranno.

Ai tempi di Penninu le cose erano diverse.

Franco Pino, il boss dagli occhi di ghiaccio

Luigi Pennino: profilo di un boss

È doveroso premettere due cose. La prima: non c’è alcun atto giudiziario definitivo che inchiodi Luigi Pennino al lenocinio.

Seconda cosa: anche i boss non cosentini stimavano Pennino proprio perché non era un lenone.

Tuttavia, Penninu resta la figura di spicco dell’ambiente cosentino, fatto di papponi, piccoli contrabbandieri ed estorsori. La sua leadership si basa su un misto di fascino personale (lo testimonia il suo successo con le donne), astuzia, coraggio e abilità con le armi.

Nasce nel ’900 alla Riforma. La Riforma di allora non è la piazza odierna ma una campagna ai confini della città che dà su altre campagne, le quali costituiscono un hinterland povero in mano a pochi ricchi.

Per qualche anno Pennino fa il fotografo ambulante. Ma il suo tenore di vita, testimoniato dall’abbigliamento elegante, è superiore alla sua professione e al suo ceto.

Come si procuri i soldi per vivere bene – e campare una bella moglie – non è del tutto un mistero per le forze dell’ordine. Già nel ’31 ’u Penninu finisce in galera con l’accusa, confermata in appello, di furto e associazione a delinquere. È solo l’esordio.

Uno scorcio suggestivo del rione Massa

Un duello tra ex amici

Nel ’44 a Cosenza la guerra è finita. Ciò non vuol dire che in città regnino la pace e la sicurezza.

A differenza dei compari reggini e siciliani, i malavitosi cosentini non ricorrono alla lupara bianca ma si affrontano a viso aperto dove e come capita.

Così avviene in un tardo pomeriggio della primavera di quel dopoguerra, quando ’u Penninu e ’u Baccu discutono animosamente nella discesa del Crocefisso, che conduce alla Riforma.

De Marco, sodale di Pennino, è un bestione dalla forza erculea. E tenta di ribellarsi al suo capo, a dispetto del fatto che quest’ultimo sia stimato e temuto in tutta la città, perché gestisce il suo potere con garbo e con un senso personale di giustizia che lo hanno reso una specie di Robin Hood.

Come mai Baccu si è ribellato? Sulla rivolta del fedelissimo ci sono due versioni diverse, ma non necessariamente contrastanti.

La prima: sarebbe stato Michele Montera, altro ex sodale di Pennino, poi diventato capo di un gruppo rivale, a istigare De Marco.

Antonio Sena

La seconda: De Marco, tra le varie, era invidioso del successo del boss con le donne.

Non è la prima volta che don Luigi subisce un tentativo di golpe. E non si fa trovare impreparato.

Pennino contro Palermo

Torniamo indietro di quasi dieci anni, per la precisione al 2 aprile 1935. Pennino convoca i suoi per una partita a bocce.

Chi perde, dovrà pagare il vino per un altro gioco: Patrune e sutta.

Col boss ci sono Albino e Michele Montera, Giovanni Del Buono, Francesco Parise e tale Luigi Palermo, detto ’u Calavisi (che, stando alle carte, sarebbe solo omonimo del boss storico, detto ’u Zorru, che prenderà il posto di Pennino).

La partita a bocce va benissimo. Decisamente meno quella a Patrune e sutta: Pennino si arrabbia coi suoi e li convoca fuori per chiarire.

Prende sottobraccio Albino Montera e si dirige verso il gasometro. Alle sue spalle c’è Palermo, che estrae un coltello e lo colpisce di striscio al collo e poi al petto. Il secondo colpo non va a bersaglio come si deve e il coltello buca solo la giacca del boss.

Quest’ultimo reagisce e colpisce ’u Calavisi al fegato con una coltellata ben piazzata.

Luigi Palermo ‘u Zorru

Palermo muore quattro giorni dopo e Pennino è condannato a quattro anni di carcere, perché la Corte d’Assise di Cosenza gli riconosce le attenuanti sull’imputazione di omicidio colposo.

La fine di Baccu

Lo stesso copione si ripete, più o meno, dieci anni dopo alla Riforma. Abituato a guardarsi le spalle, don Luigi si presenta armato come si deve.

Ha una Smith & Wesson a tamburo, con cui ha barattato la sua vecchia Beretta. De Marco spara per primo e colpisce Pennino alle gambe.

Il boss è più preciso e deciso, oltre che fortunato: mira al petto e spara tre volte. E tutt’e tre centra il bersaglio.

Stavolta la legittima difesa c’è tutta. Baccu termina la carriera e la vita. Penninu morirà trent’anni dopo e il suo feretro riceverà onorificenze degne di un leader.

Poi inizierà l’era di Luigi Palermo, ’u Zorru. Ma questa è davvero un’altra storia.

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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