Animal Party: quegli strani baccanali tra i monti della Calabria
Una leggenda, più agreste che metropolitana. O forse no. Giovanni de Giacomo, uno studioso di fine ‘800 sostenne di aver visto una “farchinoria”, cioè un rito dionisiaco celebrato dai pastori assieme ai propri animali negli anfratti del Monte Cocuzzo, una vetta importante dell’Appennino Calabro. Chissà che direbbero gli animalisti di oggi di fronte a questo amore “eccessivo” per le pecore…
Una citazione colta per partire col botto: Orazio, riferendosi a certe abitudini dei Bruzi, parlava di «amores insanes caprini», cioè amori insani con le capre.
Evidentemente quello sfottò, vecchio e terribile, secondo cui «noi avevamo le terme quando voi vi accoppiavate con le bestie», non era solo un modo di dire.
Anzi, certe zoofilie sarebbero sopravvissute all’antichità e alle proibizioni del cristianesimo fino a poco tempo fa.

Lo scrittore e i pastori
Il protagonista di questa vicenda, che risale a una fredda serata d’inverno di fine’800, è Giovanni de Giacomo, scrittore originario di Cetraro e pioniere degli studi sul folklore.
Lo studioso, vissuto a cavallo tra XIX e XX secolo, fu forse tra gli ultimi testimoni oculari di una farchinoria, ovvero di un’orgia tra i pastori e le loro pecore. Un nome bizzarro per una pratica bizzarra: parrebbe che farchinoria derivi dal latino farcino, riempire.
In che modo de Giacomo apprese di questa strana abitudine?
Lo scrittore cita le testimonianze di Domenico Bascio e Nicola Svago, due anziani pastori che vivevano sulle pendici del Monte Cocuzzo. I due, in una serata di novembre 1891, gli avrebbero raccontato, anche con una certa nostalgia, dei loro svaghi di gioventù. Soprattutto della farchinoria…

Monte Cocuzzo: l’orgia nel pagliaio
Coi suoi 1.541 metri, il Monte Cocuzzo è la vetta più elevata della Catena Paolana, la prima fascia dell’Appennino Calabro.
È una montagna dalla classica forma di cono, che fa pensare a un’origine vulcanica. Per gli antichi, il Cocuzzo, coi suoi boschi fitti e oscuri, non era un luogo rassicurante. Lo fa capire lo stesso nome, che deriverebbe dal greco kakos kytos, pietra cattiva.
Ma per i pastori calabresi di fine ’800 quei boschi erano un rifugio, dove agire indisturbati.
Dietro quelle stesse fronde, si sarebbe appostato anche de Giacomo, per spiare una farchinoria, nella notte di un 6 gennaio agli albori del ’900.

Il festino
I pastori riuniti attorno al fuoco cenano con una pecora arrostita, che hanno macellato in maniera a dir poco particolare.
Le hanno infilato un palo nel retto e le hanno dilaniato le viscere per simulare un incidente. Così potranno dare una spiegazione al padrone, quando gli restituiranno la pelle dell’animale.
Finito il pasto, innaffiato da abbondanti bevute, quattro giovani vestiti di pelli bianche e nere danno il via al festino, che comincia con una specie di corrida.
I pastori fanno entrare un montone che, spaventato e infuriato, inizia a caricare i giovani. Stavolta non c’è nulla di cruento: i quattro provocano la povera bestia e ne schivano le cornate. Poi l’animale crolla sfinito e il gioco finisce.
Anzi no: entra nel vivo.

Amplessi bestiali
A questo punto iniziano a suonare le zampogne e un pastore fa entrare sette pecore, agghindate con nastri e fiori.
Alla corrida segue una specie di maratona: i quattro giovani possiedono ripetutamente le povere bestie. Come tutte le maratone, anche questa è una gara di resistenza: vince l’ultimo che cede. Per citare Highlander: ne resterà solo uno.
Anche il pubblico, più che avvinazzato, si scatena. Alcuni si lasciano andare con le proprie compagne, altri fanno da sé.
Infine, dopo tanta fatica, la stanchezza prende il sopravvento, protagonisti e spettatori si addormentano e la festa termina.

Un giallo letterario
Fin qui, la vicenda di cui Giovanni de Giacomo asserisce di essere stato testimone.
Tuttavia, il pubblico ha appreso questa storia molti anni dopo.
Infatti, risale al 1972 La Farchinoria. Eros e magia in Calabria, il libro in cui lo studioso racconta la sua esperienza di voyeur per amor di scienza. Intendiamoci: il Nostro aveva finito il manoscritto nel 1914, cioè quindici anni prima della morte (1929).
Quindi parliamo di un testo rimasto inedito per 43 anni, che è riuscito a vedere la luce solo grazie all’interessamento di Paride de Giacomo, figlio di Giovanni e generale dei carabinieri, il quale consegnò il testo a un altro studioso, Raffaele Sirri.
Come mai questo ritardo nella pubblicazione di una storia così interessante?
A pensar male, si potrebbe ipotizzare che la farchinoria sia in buona parte una fake d’epoca. Oppure, con più credibilità, si può ritenere che forse gli ambienti scientifici dell’epoca non fossero pronti per questa scoperta.

Comunque quest’ultima ipotesi è davvero difficile: parliamo degli stessi anni in cui Lombroso teorizzava il delinquente e la prostituta per nascita e in cui la psicanalisi freudiana, piena di sesso fino all’orlo, si faceva strada nel dibattito scientifico.
Ma c’è un’ultima ipotesi, forse più semplice: l’autore ha lasciato questo manoscritto nel classico cassetto per il timore di non essere creduto.
Solo per amore
Delle farchinorie, che si svolgevano tutti gli anni tra l’Epifania e la Quaresima, oggi si parla poco.
Leggenda metropolitana (anzi campagnola) o meno che sia, esistono varie interpretazioni di questo fenomeno.
Infatti, c’è chi si rifà al mondo arcaico. E c’è chi, invece, richiama le vecchie letture gramsciane con l’aggiunta di quel po’ di Marcuse che non guasta mai, in una sorta di porno-marxismo pecoreccio.
Non mancano, ovviamente, i riferimenti alla psicanalisi.
Ma forse la verità è più semplice: i pastori calabresi amavano il loro duro lavoro. Molto e intensamente, più di quanto non si creda.
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