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La Camorra secondo i Borbone

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La malavita napoletana attecchì e divenne potente nel Regno di Napoli grazie ai legami con le sette reazionarie che combattevano la Carboneria e alla benevolenza dell’ex dinastia. Da questi rapporti “proibiti” derivò una collaborazione con le autorità di Polizia, che durò oltre la fine delle Due Sicilie. Un capitolo inedito e sottovalutato di storia criminale

Il re Carlo III di Borbone, da pochi mesi insediato come sovrano sul trono di Napoli, firmò nel 1735 una prammatica ossia un decreto, che si chiamava De Aleatoribus e che conteneva l’elenco delle case da gioco legali, fra cui una bisca collocata proprio davanti alla reggia e detta la Camorra innanzi Palazzo [B. Croce, La lingua spagnuola in Italia, Roma 1895, p. 58]. La notizia, riportata nei secoli da vari studiosi fra cui Benedetto Croce, potrebbe essere fra le prime attestazioni dell’esistenza della camorra, che esercitò per lungo tempo un controllo sulle case da gioco.

Carlo III di Borbone

Anche se le origini di questa malavita caratteristica del Napoletano sono in parte oscure, una possibile ipotesi vuole che essa si sia formata nell’alveo del regime borbonico e con il sostegno diretto di sue autorità.

Si deve chiamare in causa qui la setta detta dei Calderari, una società segreta per certi aspetti simile a quelle carbonare coeve, ma che era politicamente reazionaria e si proponeva la difesa della monarchia dei Borboni e della Chiesa cattolica, in questo paragonabile all’altra coeva detta dei Centurioni ed esistita in Romagna.

La sua storia è, per forza di cose essendo una setta, difficilmente ricostruibile, ma essa si sarebbe formata all’interno delle cosiddette unioni segrete borboniche del 1799 e del Decennio francese, quando i sostenitori dei Borboni dovettero entrare in clandestinità sotto la repubblica napoletana e la monarchia dei Napoleonidi.

Essa aveva caratteristiche di società segreta, analoghe a quelle della Carboneria ed è possibile che, in parte, derivasse da una scissione avvenuta in cellule carbonare. Si badi: questi adepti sarebbero entrati nella Carboneria durante il Decennio francese ed unicamente per opporsi ai Napoleonidi, essendo quindi dei reazionari. Successivamente, dopo il ritorno al trono di Napoli di re Ferdinando di Borbone, questi carbonari si sarebbero allontanati dalla fratellanza per rifiuto della sua politica ormai liberale. Tale società segreta controrivoluzionaria era però al contempo continuatrice ed erede del movimento sanfedista, come fini ed almeno in parte come uomini. Il sostegno ricevuto da questi settari dalle autorità delle Due Sicilie si spiega con il tentativo di creare una qualche base di consenso popolare organizzato in competizione con quello carbonaro, rispondendo quindi alla crisi di legittimazione ed adesione della monarchia borbonica.

Benedetto Croce

[Già un agente russo sosteneva che i Calderari derivassero da una scissione della Carboneria, Gregoire Vladimirov Orloff, Memoires historiques, politiques et litteraires sur le Royaume de Naples, Paris, 1819-21. p. 283. Uno studio recente ed accurato che supporta tale ipotesi è quello di Emilio Gin, Sanfedisti, carbonari, magistrati del re Il Regno delle Due Sicilie tra Restaurazione e rivoluzione, Dante & Descartes, Napoli 2003, pp. 39-77].

Durante la Restaurazione il famoso principe di Canosa e potentissimo ministro della Polizia di re Ferdinando I di Borbone, Antonio Capece Minutolo, si propose di utilizzare questa rete cospirativa con funzioni di spionaggio e terrorismo di Stato contro la carboneria, la massoneria ed i liberali. Avrebbe avuto un peso notevole nei Calderari anche il vescovo di Policastro, il sanfedista Lodovici.

Anche se tale società segreta aveva fini politici, il materiale umano da cui era composta attingeva al Quarto Stato, in particolare al sottoproletariato delinquenziale. Secondo lo storico Antonio Lucarelli, autore di fondamentali studi sul brigantaggio politico in Puglia, con la «tenebrosa istituzione dei Calderari sorretti dal Canosa l’odio di parte irrompe nella parte più cruenta e barbarica: aggressioni, rapine, ricatti, stupri, ferimenti, assassini».

Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa

[Sul contrasto fra le opposte società segrete dei Calderari e dei Carbonari: A. Lucarelli, Il maresciallo di campo Riccardo Church, il bandito Ciro Annichiarico e la Carboneria di Terra d’Otranto alla luce di nuovi documenti, in Rinascenza Salentina, A. 3, n. 4 (lug-ago 1935), pp. 205-217; sul principe di Canosa, cfr. Walter Maturi, Il Principe di Canosa, Felice Le Monnier,Firenze, 1944; Vladimiro Sperber, Il cavalier Bartholdy ed i carbonari, in Rassegna storica del Risorgimento, 1970, vol. 57, fasc. 1, pp. 3-47, citazione a p. 37].

La segretezza dei Calderari rende naturalmente assai difficile ricostruirne la storia, ma le fonti confermano che essa attingeva a lazzaroni, criminali comuni, briganti, ex carcerati.

Al riguardo, è famosa la descrizione fattane dal generale Pietro Colletta:

«Era nel regno la setta dei calderari, che dovea per voti sostenere la monarchia dispotica, opprimere i carbonari, i liberi-muratori, i murattiani, i liberali: ed erano calderari uomini malvagi, che provenivano dalle disserrate prigioni nei tumulti del 99, dalla anarchia di quell’anno, dal brigantaggio del decennio, e dalle galere di Ponza e Pantelleria. […] Di loro si fece capo, o lo era, il principe di Canosa, che, divenuto ministro, gli agitò co mezzi e nel segreto della setta». [P. Colletta, Storia del reame di Napoli, vol. II, Bruxelles 1847, pp. 141-142, citazione a p. 141].

Lo storico ottocentesco Nicola Nisco collega direttamente l’evoluzione della camorra ai Calderari. Egli sostiene che la camorra sarebbe sorta ai tempi del vicereame, ma che si sarebbe rafforzata ed avrebbe conosciuto un salto di qualità negli anni della Restaurazione per il tramite della società segreta dei reazionari. [N. Nisco, Storia del reame di Napoli dal 1824 al 1860, Alfredo Guida Editore, Napoli 1908, vol. I, pp. 41-42].

Piero Colletta

Questa visuale ha trovato ascolto ed almeno parziale accoglienza anche in storici moderni. I Calderari avrebbero condizionato l’evoluzione della Camorra in una associazione capace di svolgere un ruolo di controllo territoriale, di tipo sia estorsivo, sia spionistico, con capacità di scambio politico.

Questa metamorfosi avrebbe interagito con la trasformazione della polizia rispetto ai modelli di Antico Regime e con l’assegnazione alla camorra di funzioni di controspionaggio antiliberale. [Giorgia Alessi Palazzolo, Giustizia e polizia. Il controllo di una capitale. Napoli 1779-1803, Jovene, Napoli 1992, pp. 5 sgg.; Marcella Marmo, Il coltello e il mercato. La camorra prima e dopo l’Unità d’Italia, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma 2011, p. 290; Antonio Fiore, Camorra e polizia nella Napoli borbonica (1840-1860), Federico II University Press, Napoli 2019, pp. 35-36, 56].

La Camorra effettivamente divenne e rimase sino alla caduta delle Due Sicilie una società segreta, collusa con la gendarmeria borbonica e infiltrata nell’esercito.

Nicola Nisco

Francesco Barbagallo, docente della Federico II di Napoli, ha scritto in maniera documentata che «la polizia borbonica, nella tutela dell’ordine pubblico, non mancò di servirsi dell’organizzazione camorristica», adoperandola anche quale rete spionistica contro i liberali». [F. Barbagallo, Storia della camorra, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 12].

Già Benedetto Croce aveva autorevolmente ammonito che dal 1799 la dinastia borbonica aveva scelto quale sua base sociale «il fecciume delle plebi», insomma il Quarto Stato delle classi dei lazzaroni, degli spostati, dei criminali. [B. Croce, Il cardinal Ruffo e la riconquista del regno di Napoli, in La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da Benedetto Croce, 41, 1943].

È coerente con questo quadro che il regime reazionario abbia cercato di appoggiarsi ad una rete cospirativa e criminale assieme, ciò che favorì una evoluzione della camorra ed un suo potenziamento da bande delinquenziali ad organizzazione capace di un profondo e ramificato controllo sociale.

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