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Craxi dixit, l'inascoltato Vangelo che modernizzò la sinistra italiana

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Pubblichiamo integralmente il testo originale de “Il Vangelo Socialista”, con cui il segretario del Psi fece lo storico strappo dalla cultura marxista fino ad allora egemone nella sinistra italiana, che da allora iniziò a guardare al futuro e all’Europa.

«La storia del socialismo non è la storia di un fenomeno omogeneo. Nel corso di travagliate vicende sotto le insegne del socialismo si sono raccolti e confusi elementi distinti e persino reciprocamente repulsivi. Statalismo e antistatalismo, collettivismo e individualismo, autoritarismo e anarchismo, queste e altre tendenze ancora si sono incontrate e scontrate nel movimento operaio sin da quando esso cominciò a muovere i suoi primi passi come unità politica e di classe. In certe circostanze storiche le impostazioni ideologiche diverse sono addirittura sfociate in una vera e propria guerra fratricida. È così avvenuto che tutti i partiti, le correnti e le scuole che si sono richiamate al socialismo, si sono poste in antagonismo al capitalismo, ma ciò non è quasi mai stato sufficiente ad eliminare divisioni e contrapposizioni. I modelli di società che indicavano come alternativa alla società capitalistica erano spesso antitetici.

La profonda diversità dei «socialismi» apparve con maggiore chiarezza quando i bolscevichi si impossessarono del potere in Russia. Si contrapposero e si scontrarono concezioni opposte. Infatti c’era chi aspirava a riunificare il corpo sociale attraverso l’azione dominante dello Stato e c’era chi auspicava il potenziamento e lo sviluppo del pluralismo sociale e delle libertà individuali. Riemerse così il vecchio dissidio fra statalisti e antistatalisti, autoritari e libertari, collettivistici e non. 
La divisione si riflesse a grandi linee nell’esistenza di due distinte organizzazioni internazionali. I primi, eredi della tradizione giacobina, si raggrupparono sotto la bandiera del marxismo-leninismo, mentre i secondi volevano rimanere nell’alveo della tradizione pluralistica della civiltà occidentale. A partire dal 1919 il socialismo, anche dal punto di vista organizzativo, sarà attraversato da due grandi correnti e da molti rivoli collaterali, che si potrebbero meglio definire solo analizzando la storia dei singoli partiti. Non sono pochi a ritenere che la scissione, vista nelle sue grandi linee, viene da lontano. C’è chi ne vede le radici nella stessa Rivoluzione francese, durante la quale, mentre era in atto la guerra contro l’Antico Regime, si scontrarono due concezioni della società ideale; quella autoritaria e centralistica e quella libertaria e pluralistica. Già nelle analisi di Proudhon per esempio si tenta l’individuazione delle radici etico-politiche del conflitto latente, che lacerava la sinistra. In Proudhon c’è infatti un’appassionata difesa non solo delle radici ideali della protesta operaia contro lo sfruttamento capitalistico ma anche una percezione acuta della divaricazione sostanziale tra la società socialista e la società comunista. Da un lato il comunismo che vuole la soppressione del mercato, la statalizzazione integrale della società e la cancellazione di ogni traccia di individualismo. Dall’altra il socialismo, che progetta di instaurare il controllo sociale dell’economia e lavora per il potenziamento della società rispetto allo Stato e per il pieno sviluppo della personalità individuale.
Proudhon considerava il socialismo come il superamento storico del liberalismo e vedeva nel comunismo una «assurdità antidiluviana» che, se fosse prevalso, avrebbe «asiatizzato» la civiltà europea. Lo stesso Proudhon ci ha lasciato una descrizione profetica di che cosa avrebbe generato l’istituzionalizzazione del rigido modello statalista e collettivistico: «la sfera pubblica porterà alla fine di ogni proprietà; l’associazione provocherà la fine di tutte le associazioni separate e il loro riassorbimento in una sola; la concorrenza, rivolta contro se stessa, porterà alla soppressione della concorrenza; la libertà collettiva, infine, dovrà inglobare le libertà cooperative, locali e particolari». Conseguentemente sarebbe nata «una democrazia compatta fondata in apparenza sulla dittatura delle masse, ma in cui le masse avrebbero avuto solo il potere di garantire la servitù universale, secondo le formule e le parole d’ordine prese a prestito dal vecchio assolutismo riassumibili:

– comunione del potere;

– accentramento;

– distruzione sistematica di ogni pensiero individuale, cooperativo e locale, ritenuto scissionistico;

– polizia inquisìtoriale;

– abolizione o almeno restrizione della famiglia e, a maggior ragione, dell’eredità;

– suffragio universale organizzato in modo tale da sanzionare continuamente questa sorta di anonima tirannia, basata sul prevalere di soggetti mediocri o perfino incapaci e sul soffocamento degli spiriti indipendenti, denunciati come sospetti e, naturalmente, inferiori di numero».
Qui, come si vede, Proudhon indica che cosa non doveva essere il socialismo e contemporaneamente che cosa sarebbe diventata la società se fosse prevalso il modello collettivistico basato sulla statizzazione integrale dei mezzi di produzione e sulla soppressione del mercato. La storia purtroppo ha portato qualche elemento di fatto a sostegno della sua previsione. Il socialismo di Stato, messi in disparte tutti i valori, le istituzioni e i principi della civiltà moderna, li ha sostituiti con un modello di vita collettivistico, burocratico e autoritario, cioè con un sistema pre-moderno. E ciò è tanto vero che molti rappresentanti della cultura del dissenso spingono la loro critica sino al punto di vedere nel comunismo, così come storicamente si è realizzato, una vera e propria «restaurazione asiatica». 
Ma, per venire ad analisi più recenti, ricordiamo che molti altri intellettuali della sinistra europea hanno sviluppato questo filone critico.
Da Russell a Carlo Rosselli a Cole ci perviene un unico stimolo che ci invita a non confondere il socialismo con il comunismo, la piena libertà estesa a tutti gli uomini con la cosiddetta libertà collettiva.

Il carattere autoritario di ciò che viene chiamato il «socialismo reale o maturo» non è una deviazione rispetto alla dottrina, una degenerazione frutto di una data somma di errori, bensì la concretizzazione delle implicazioni logiche dell’impostazione rigidamente collettivistica originariamente adottata. L’esame dei fondamenti essenziali del leninismo non può che confermare tale tesi.
Fino alla pubblicazione di «Che fare?» Lenin fu sostanzialmente un marxista ortodosso: credeva che il socialismo si sarebbe realizzato solo nei paesi capitalistici avanzati e solo a condizione che la classe operaia avesse raggiunto un elevato grado di coscienza politica e di maturità culturale. Ma nel «Che fare?» queste tesi sono letteralmente rovesciate. Dalla teoria e dalla prassi del socialismo democratico europeo si passa a uno schema rivoluzionario e giacobino. Lenin stesso definisce il rivoluzionario marxista «un giacobino al servizio della classe operaia» e propone di creare un partito composto esclusivamente di «rivoluzionari di professione». Così il socialismo da compito storico della classe operaia diventa qualcosa che deve essere pensato, costruito e diretto da una élite selezionata di individui posti al di sopra della massa. 
Lenin comincia col distinguere due forme o gradi di percezione della realtà: la «spontaneità» e la «coscienza»: solo la seconda permette di anti-vedere i fini ultimi della Storia. Successivamente Lenin afferma perentoriamente che gli operai non possono avere il tipo di visione del reale che è proprio della coscienza poiché privi del sapere filosofico e scientifico. Essi, abbandonati alle loro tendenze spontanee, sono condannati a muoversi entro l’ambito delle leggi del sistema. Tutt’ al più possono raggiungere una «coscienza sindacale» dei loro interessi immediati, non già una coscienza politica che può essere prodotta solo al di fuori della loro condizione di classe. E i «portatori esterni» della «giusta coscienza», sono sempre secondo Lenin,gli intellettuali.
Ad essi, quindi, spetta il ruolo storico organizzativo e dirigente del movimento operaio. Date queste premesse, ovviamente il soggetto rivoluzionano non può essere la classe operaia bensì il corpo scelto degli intellettuali che si sono consacrati alla rivoluzione comunista. Il pericolo che gli anarchici russi avevano sottolineato con estrema energia e cioè che la classe operaia fosse «colonizzata» dagli intellettuali declasses che entravano in un movimento socialista quali «tribuni della plebe» diviene con il «Che fare?» una realtà. Lenin teorizza infatti con grande franchezza il diritto-dovere degli intellettuali guidati dalla «scienza marxista» di sottoporre la classe operaia alla loro direzione. L’ammissione storica che Marx aveva assegnato al proletariato doveva raccogliersi nelle mani dell’intelligencija rivoluzionaria. Si capisce agevolmente perché Trockij, Plechanov, Martov e Rosa Luxemburg abbiano accusato Lenin di «sostitutismo». Ai loro occhi l’idea leninista di subordinare la classe operaia alla direzione paternalistica dell’élite cosciente ed attiva appariva come un capovolgimento del marxismo e come un ritorno alla tradizione giacobina. «Trockij in particolare stigmatizzò la teoria leninista poiché essa confondeva la dittatura del proletariato con la dittatura sul proletariato e affidava la missione storica di edificare il socialismo non alla classe operaia dotata di iniziativa che ha preso nelle sue mani le sorti della società, ma a una organizzazione forte, autoritaria che domina il proletariato ed attraverso ad esso la società».
Era il Trockij menscevico che prevedeva come lo spirito di setta e il manicheismo giacobino che Lenin voleva introdurre nel movimento operaio avrebbero avuto conseguenze disastrose.
In effetti «Che fare?» apparve a molti come un’aggressiva ripresa del progetto di Robespierre, che già molte scuole socialiste europee avevano definito come una sorta di dispotismo pseudo-socialista. Il modello di partito ideato da Lenin e una istituzione resa monolitica dal vincolo dell’ortodossia e dal principio della subordinazione assoluta e senza riserve delle volontà individuali alla volontà collettiva. Il partito bolscevico fu sin dal suo atto di nascita, una organizzazione ferreamente disciplinata e impegnata nella diffusione su scala planetaria del socialismo scientifico, interpretato come una dottrina a carattere salvifico, cioè una setta di «veri credenti» che in nome del proletariato riteneva di avere il diritto-dovere di instaurare il suo dominio totale sulla società per rigenerarla.
Nessuno meglio di Rosa Luxemburg ha descritto le conseguenze elitaristiche  e burocratiche che da una tale concezione e prassi derivavano. «Un centralismo spiegato, il cui principio vitale è da un lato il netto rilievo e la separazione della truppa organizzata dai rivoluzionari dichiarati e attivi dall’ambiente, pur esso rivoluzionariamente attivo ma non organizzato, che li circonda, e dall’ altro la rigida disciplina e l’intromissione diretta, decisiva, determinante delle istanze centrali in tutte le manifestazioni vitali delle organizzazioni locali del partito… Chiudere il movimento nella corazza di un centralismo burocratico che degrada il proletariato militante a docile strumento di un comitato».

Come ha scritto Isaak Deutscher «poiché la classe operaia non era là (dove sarebbe dovuta esserci per esercitare la direzione) i bolscevichi decisero di agire come suoi luogotenenti e fiduciari fino al momento in cui la vita fosse diventata più normale e una nuova classe lavoratrice si fosse affermata e sviluppata. Per questa strada naturalmente si giungeva alla dittatura della burocrazia, al potere incontrollato e alla corruzione attraverso il potere».
Ma, occorre ripeterlo, tale paradossale fenomeno – la dittatura del proletariato senza il proletariato, la «dittatura per procura» esercitata in nome e per conto della classe – non può essere considerata una conseguenza non prevista e non prevedibile. E sempre il Trockij menscevico che nel 1904 scrive che se il progetto leninista si fosse realizzato «il partito sarebbe stato sostituito dall’organizzazione del partito, l’organizzazione sarebbe stata a sua volta sostituita dal comitato centrale ed infine il comitato centrale dal dittatore».
Con il successo storico-politico del leninismo la logica giacobina con tutte le sue componenti vecchie e nuove che sfociano nella dittatura rivoluzionaria prende il sopravvento sulla logica pluralistica e democratica del socialismo e la Russia si incammina sulla strada del collettivismo burocratico-totalitario. 
Ora, dato che la meta finale indicata da Lenin era la società senza classi e senza Stato, si potrebbe parlare di «eterogenesi dei fini» nel senso che i mezzi adoperati hanno fagocitato l’ideale. Il leninismo al potere sarebbe, da questo punto di vista, la dimostrazione che non è possibile scindere i mezzi dai fini e che la storia non è «razionale» bensì «ironica» e persino «crudele». Ma in realtà il conflitto tra bolscevismo e socialismo democratico non fu un semplice conflitto sui mezzi da adoperare per avanzare verso la società ideale. Tale conflitto è stato senz’altro uno dei fattori che ha segnato la demarcazione netta nel seno del movimento operaio, ma non certamente quello decisivo. Fra comunismo leninista e socialismo esiste una incompatibilità sostanziale che può essere sintetizzata nella contrapposizione tra collettivismo e pluralismo. Il leninismo è dominato dall’ideale della società omogenea, compatta, indifferenziata. C’è nel leninismo la convinzione che la natura umana è stata degradata dall’apparizione della proprietà privata, che ha disintegrato la comunità primitiva scatenando la guerra di classe. E c’è soprattutto il desiderio di ricreare l’unità originaria facendo prevalere la volontà collettiva sulle volontà individuali, di interesse generale sugli interessi particolari. In questo senso il comunismo è organicamente totalitario, nel senso che postula la possibilità di istituire un ordine sociale così armonioso da poter far a meno dello Stato e dei suoi apparati coercitivi. Questo «totalitarismo del consenso» deve però essere preceduto da un «totalitarismo della coercizione». Tanto è vero che Lenin non ha esitato a descrivere la dittatura del partito bolscevico come «un potere che poggia direttamente sulla violenza e che non è vincolata da nessuna legge».Pure la meta finale resta la società senza Stato, cioè «il paradiso in terra» (Lenin) successivo alla «resurrezione dell’umanità» (Bucharin). Talché si può dire che la meta finale indicata dal comunismo è «un Regno di Dio senza Dio», cioè la costruzione reale del regno millenario di pace e di giustizia illusoriamente promesso del messianesimo giudaicocristiano. Non è certo un caso, dunque, che Gramsci sia arrivato a definire il marxismo «la religione che ammazzerà il cristianesimo» realizzando le sue esaltanti promesse e facendo passare dalla potenza all’atto l’ideale della società perfetta. 
Se questa interpretazione del leninismo è corretta, allora la contrapposizione fra socialismo e comunismo è certo molto profonda. Il comunismo leninista ha mire palingenetiche: è una religione travestita da scienza che pretende di aver trovato una risposta a tutti i problemi della vita umana. Per questo non ha voluto tollerare rivali ed è in una parola «totalitario». 
Milovan Gilas e Gilles Martinet lo hanno sottolineato in maniera convincente: il leninismo nella misura in cui aspira a rigenerare la natura umana, a creare un mondo purificato da ogni negatività, a porre fine allo scandalo del male, è una dottrina millenaristica che, una volta al potere, non può produrre che uno Stato ideologico retto una casta.
Gramsci ha teorizzato senza perifrasi la natura «totalitaria» e persino «divina» del partito comunista, che non a caso ha definito “ il focolare della fede e il custode della dottrina del socialismo scientifico». Il partito marxista-leninista in quanto incarna il progetto di disalienazione totale dell’umanità, è una istituzione carismatica che racchiude in sè tutte le verità e tutta la moralità della teoria. Esso esprime l’etica, la scienza del «proletariato ideale» che deve illuminare il «proletariato reale» e indicargli «la via della salvezza» (come si legge nella risoluzione del secondo Congresso del Komintern). Nelle sue mani ci sono «le chiavi della storia» poiché esso orienta sua azione alla luce dell‘unica dottrina che sia scientifica e salvifica ad un tempo. Per questo il comunismo non può venire a patti con lo spirito critico, il dubbio metodico, la pluralità delle filosofie, insomma con tutto ciò che rappresenta il patrimonio culturale della civiltà occidentale laica e liberale. Esso, come soleva ricordare Bertrand Russell a coloro che si facevano un’immagine mitologica del marxismo-leninismo, si fonda sull’idea che deve esistere un’autorità ideologica (il partito) che stabilisce autocraticamente i confini che separano il bene dal male, il vero dall’errore, l’utile dal dannoso. Di qui l’elevazione del marxismo a filosofia (obbligatoria) di Stato, l’istituzionalizzazione dell’inquisizione rivoluzionaria, la lotta accanita e spietata contro i devianti, i dissidenti e gli eretici.
Rispetto alla ortodossia comunista, il socialismo è democratico, laico e pluralista. Non intende elevare nessuna dottrina al rango di ortodossia, non pretende porre i limiti alla ricerca scientifica e al dibattito intellettuale, non ha ricette assolute da imporre. Riconosce che il diritto più prezioso dell’uomo è il diritto all’errore. E questo perché il socialismo non intende porsi come surrogato, ideale e reale, delle religioni positive. Il socialismo nella sua versione democratica ha un progetto etico-politico che si inserisce nella tradizione dell’illuminismo riformatore e che può essere sintetizzato nei seguenti termini: socializzazione dei valori della civiltà liberale, diffusione del potere, distribuzione ugualitaria della ricchezza e delle opportunità di vita, potenziamento e sviluppi degli istituti di partecipazione delle classi lavoratrici ai processi decisionali. Carlo Rosselli definiva appunto il socialismo come un liberalismo organizzatore e socializz
atore.

Dalla pretesa che il comunismo ha di fare «l’uomo nuovo» deriva del tutto logicamente il disegno di ristrutturare tutto il campo sociale secondo un criterio unico e assolutamente vincolante. Il principio di fondo è stato formulato da Lenin in termini inequivocabili: «il partito tutto corregge, designa e dirige in base a un criterio unico» al fine di sostituire «l’anarchia del mercato» con la “centralizzazione assoluta”.
E in effetti, del tutto coerentemente con la dottrina, i bolscevichi non appena conquistarono lo Stato incominciarono a distruggere sistematicamente, metodicamente, ogni centro di vita autonoma e operarono in modo da concentrare tutto il potere politico, economico e spirituale in un’unica struttura di comando, l’apparato del partito. E chi dice apparato dice controllo integrale della società da parte degli amministratori universali. 
Fu così che prese corpo lo Stato padrone di ogni cosa, delle risorse economiche delle istituzioni degli uomini e persino delle idee. L’autonomia della società civile fu intenzionalmente soffocata, la spontaneità sociale limitata o soppressa, l’individualismo ridotto ai minimi termini. 

Ma, evidentemente tutto ciò implica la burocratizzazione integrale della società la quale come si legge in «Stato e rivoluzione», diventa per ciò stesso «un unico ufficio ed un unico stabilimento industriale» diretto dall’alto dell’apparato del partito che vigilerà sugli uomini affinché essi non deviino dalla retta via fissata dall’ortodossia. Di qui la descrizione del progetto collettivistico data da Gilas: «Lo Stato comunista opera per raggiungere la completa spersonalizzazione dell’individuo, delle nazioni e anche dei propri appartenenti. Aspira a trasformare la società intera in una società di funzionari. Aspira a controllare, direttamente o indirettamente, salari e stipendi, alloggi e attività intellettuali». Analogamente Pierre Naville ha scritto che «la burocrazia nel socialismo di Stato gode di uno statuto fino ad oggi sconosciuto: di fatto essa controlla la totalità della vita economica, ed esercita questo controllo dall’alto… E’ nel socialismo di Stato che la burocrazia mostra finalmente la su reale natura: essa è l’organizzazione gerarchica applicata a tutto, l’armatura reale della vita sociale e privata, il comando su ogni cosa. Essa incarna lo Stato nella sua doppia dimensione nazionale e nel suo imperialismo internazionale».
A questo punto possiamo trarre alcune conclusioni di ordine generale. Leninismo e pluralismo sono termini antitetici se prevale il primo muore il secondo. La democrazia (liberale o socialista) presuppone l’esistenza di una pluralità di centri di poteri (economici, politici, religiosi, etc.) in concorrenza fra di loro, la cui dialettica impedisce il formarsi di un potere assorbente e totalitario. Di qui la possibilità che la società civile abbia una certa autonomia rispetto allo Stato e che gli individui e i gruppi possano fruire di zone protette dall’ingerenza della burocrazia. La società pluralistica inoltre è una società laica nel senso che non c’è alcuna filosofia ufficiale di Stato, alcuna verità obbligatoria. Nella società pluralistica la legge della concorrenza non opera solo nella sfera dell’economia, ma anche in quella politica e in quella delle idee. Il che presuppone che lo Stato è laico solo nella misura in cui non pretende di esercitare, oltre al monopolio della violenza, anche il monopolio della gestione dell’economia e della produzione scientifica. In breve: l’essenza del pluralismo è l’assenza del monopolio. Tutto il contrario delle tendenze che si sono affermate nel sistema comunista. I veri marxisti-leninisti non possono tollerare contropoteri, ideali comunitari diversi da quello collettivistico. Per questo essi sentono di avere il diritto-dovere di imporre il «socialismo scientifico» ai recalcitranti. Per questo Gramsci aveva teorizzato la figura del moderno Principe come «il solo regolatore» della vita umana. La meta finale è la società senza Stato, ma per giungervi occorre statizzare ogni cosa. Questo in sintesi è il grande paradosso del leninismo.
Ma come è mai possibile estrarre la libertà totale dal potere totale? Invece di potenziare la società contro lo Stato, si è reso onnipotente lo Stato con le conseguenze previste da tutti gli intellettuali della sinistra revisionistica che hanno visto nel monopolio delle risorse materiali e intellettuali la matrice dell’autoritarismo di Stato. Pertanto se vogliamo procedere verso il pluralismo socialista, dobbiamo muoverci in direzione opposta a quella indicata dal leninismo: dobbiamo diffondere il più possibile il potere economico, politico e culturale. Il socialismo non coincide con lo statalismo. Il socialismo, come ha ricordato Norberto Bobbio è la democrazia pienamente sviluppata, dunque è il superamento storico del pluralismo liberale e non già il suo annientamento. È la via per accrescere e non per ridurre i livelli di libertà e di benessere e di uguaglianza».

Bettino Craxi 

 

 

 

Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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