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Addio a Frank Morris, l’incompreso mago della chitarra degli anni ’80

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Scompare tragicamente un talento del Sud. La vita sprecata di un grande artista

«Era bravissimo, ma voi lo avete emarginato», ha scritto sul proprio profilo Facebook un amico che lo conosceva bene. Francesco Morrone, in arte Frank Morris, non è più dell’alba del 10 giugno. Inutili i soccorsi. Francesco, per gli amici Ciccio e per gli ammiratori Frank, non c’è l’ha fatta.

Forse trent’anni fa, quando era il migliore chitarrista di Cosenza, non avrebbe fatto questa fine triste. Forse qualcuno, allora, gli avrebbe impedito il gesto estremo a cui non è stato possibile rimediare. Forse qualcuno, allora, avrebbe pensato che sarebbe stato un peccato lasciar morire uno che era capace di clonare sulla chitarra un assolo di Brian May o di Jimmy Page (rispettivamente, lo chiariamo ai digiuni di rock che non sono pochi, i leggendari guitar hero dei Queen e dei Led Zeppelin) al secondo ascolto e di restituirlo a chi aveva la fortuna di ascoltarlo con svisate grandiose.

Ma quella era un’altra Cosenza e un’altra Calabria. Francesco, allora, suonava alla grande assieme a pochi amici e, per sopravvivere, si adattava ai piano bar e alle feste di piazza, in cui le cose più rock che poteva suonare erano le parti di Maurizio Solieri nelle canzoni del Vasco Rossi di allora (quello vero, per i quarantenni di oggi).

Erano la Cosenza e la Calabria dove c’era il coprifuoco perché gli uomini delle cosche se le davano di santa ragione e perché i giovani, i ragazzi che allora facevano il liceo e quelli che suonavano, non avevano dove andare. C’era solo piazza Kennedy. C’era solo qualche negozio di musica che importava le primizie del rock e le rivendeva care e amare ai giovani buongustai. E c’era una borghesia pomposa e ignorante, che, anziché gruppi o band, diceva orchestrine, come se l’Italia si fosse fermata agli anni ’50.

E forse nel Profondo Sud era vero: era come se un’inspiegabile (e intollerabile) macchina del tempo avesse congelato tutto. Impensabile, allora, campare di musica e di arte da Salerno in giù. Lo è pure oggi, intendiamoci. Ma allora, nei griffati e fetenti anni ’80, quel poco benessere in più che aveva varcato il Pollino aveva stimolato tutto fuorché la cultura. E quella generazione di giovani artisti, di cui Francesco era una punta di diamante, finì tritata dal suo stesso talento. I più coraggiosi e menefreghisti emigrarono, altri cambiarono lavoro. Frank è rimasto prigioniero di sé stesso e di alcune dipendenze che contribuirono a rendere indistruttibili le sbarre in cui si era rinchiuso. Non è stata la rabbia per ciò che poteva essere o la nostalgia, anch’essa rabbiosa, per ciò che è stato. Nel suo caso, forse, fu la delusione di non essere riuscito a realizzarsi con ciò che si sapeva fare. Per cui si aveva un talento vero. E raro.

Gli anni ’90 non furono meglio: il risveglio, allora, ci fu. Ma venne gestito da una classe politica incolta che aveva l’unico merito di essere scampata a Tangentopoli e invase le istituzioni riciclandosi nei nuovi partiti o sfruttando un malinteso civismo. Allora, mentre i Morris venivano emarginati, prese il sopravvento la generazione di artistoidi che mescolavano punk, tarantelle e sinistrismo e, grazie ai soldi pubblici, spadroneggiavano nelle piazze o andavano in tournée inaccessibili a chi non aveva santi in paradiso (la p minuscola non è un refuso).

Poi ci si ritrova a cinquant’anni come dei sopravvissuti a vivere di ricordi e di un unico grande rimpianto: se fossi andato via per tempo o se fossi stato capace di resistere fuori.. L’amarezza di una vita non vissuta tra ipotesi, se e ma perché si è nati coi talenti e le passioni sbagliati in un posto che non ha nulla da offrire a chi abbia capacità superiori all’ordinario in settori ritenuti voluttuari da una società che considera le brutalità del mondo agricolo che fu un modello morale e che cerca nel pubblico impiego un’ancora di salvezza.

Frank non c’è più. E con lui spariscono le passioni della giovinezza. Vissuta male? Forse no: certi sogni ad occhi aperti sono stati comunque belli. Peccato solo che in tanti non sono riusciti a svegliarsi per tempo, prima che l’impraticabilità li trasformasse in incubi.

Saverio Paletta

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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