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Suddisti, neoborbonici e fake news. Il caso Pino Aprile

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Un approfondito fact checking su “Carnefici”, il libro in cui il giornalista pugliese ha tentato di dimostrare il genocidio dei meridionali compiuto dagli “invasori piemontesi” durante l’Unità d’Italia. Il saggio ne esce a pezzi: numeri ballerini e un uso disinvolto delle statistiche. Il tutto, condito da una retorica fastidiosa

Le caratteristiche della paraletteratura neoborbonica, da noi già individuate in un precedente contributo, emergono con la massima evidenza ed efficacia nella recente produzione saggistica di Pino Aprile. Concentreremo la nostra attenzione su Carnefici, pubblicato nel 2016 da Piemme. Si tratta dello scritto di divulgazione storica più ambizioso che Aprile abbia mai realizzato.

Pino Aprile

L’autore vanta un curriculum giornalistico di tutto rispetto: vicedirettore di Oggi e direttore di Gente, Aprile ha lavorato in televisione, con Sergio Zavoli, all’inchiesta a puntate Viaggio nel Sud e a Tv7, settimanale del Tg1. Nell’ambito della sua produzione saggistica si segnala, ovviamente, il bestseller Terroni, uscito nel 2010, diventato immediatamente la bibbia dei neoborbonici e dei movimenti sudisti.

In Carnefici Aprile intende approfondire e consolidare il discorso revanscista iniziato con Terroni, tentando di dimostrarne la dignità storiografica.

La grande esperienza del giornalista pugliese nell’uso delle tecniche dei rotocalchi emerge con assoluta evidenza fin dalla sovraccoperta della prima edizione del libro.

La copertina di Carnefici

Il titolo, Carnefici appunto, compare spezzato su due righe, a caratteri cubitali. Segue, in carattere corsivo più piccolo, un lungo sottotitolo: Fu genocidio: centinaia di migliaia di italiani del Sud uccisi, incarcerati, deportati, torturati, derubati. Infine, in corsivo maiuscolo più grande, l’annuncio trionfale: Ecco le prove.

Nel retro della sovraccoperta medesima, un miniracconto e una perorazione finale tradiscono l’impiego di strategie retoriche che abbiamo già visto applicate nella pubblicistica neoborbonica:

«Mio padre ci chiamò e ci disse: Ricordatevi, figli miei, quando una cosa nessuno te la vuole dire, allora la terra si crepa, si apre. E parla!

Ora, la terra ha parlato. Nessuno potrà più dire: io non sapevo».

In poche righe, dunque, vediamo in azione una formidabile quantità di armi tratte dall’arsenale retorico dei neoborbonici: l’appello all’emotività (il discorso del padre ai figli); il riferimento alla untold history (quando una cosa nessuno te la vuole dire); la pressione morale, per cui chi non accetta la tesi sudista è automaticamente da considerarsi persona abietta, quanto meno sul piano intellettuale (nessuno potrà più dire: io non sapevo).

Un momento della conferenza InVito alla Storia (a destra nella foto, Lorenzo Terzi)

Venendo agli argomenti storici esposti nel libro, occorre innanzitutto tener conto del fatto che Carnefici è un grosso volume di 464 pagine, decisamente meno scorrevole e fruibile di Terroni. A questo dato meramente quantitativo – di per sé poco rilevante – si deve affiancare un’osservazione valida per tutta la paraletteratura di stampo neoborbonico.

Tale produzione, non avendo un carattere propriamente scientifico, non prende quasi mai in considerazione un singolo problema storiografico per approfondirlo e, possibilmente, risolverlo. In genere gli scritti provenienti da questo ambiente sono volutamente compositi. Vi si dibatte e polemizza su molte questioni; il presente e il passato rovinano l’uno sull’altro; vengono inopinatamente accostati temi e problemi diversi e distinti, allo scopo di sostenere affermazioni che non hanno forza logica sufficiente per reggersi da sole.

Non volendo rischiare di perderci nelle sabbie mobili del rivendicazionismo apriliano, esamineremo solo l’assunto fondamentale di Carnefici: all’indomani dell’unità, al Sud, si sarebbe verificato un genocidio, consapevolmente e scientificamente condotto dall’esercito piemontese ai danni delle popolazioni meridionali.

Da sinistra, Gennaro De Crescenzo, Pino Aprile e Don Carlos di Borbone

Per dimostrare la sua tesi, Aprile mette a confronto tre documenti. Il primo è una Statistica delle Provincie Napoletane inviata il 10 agosto 1861 al Comandante del VI Dipartimento militare in Napoli dal Segretario del Dicastero di polizia per le province napoletane. Nella lettera di accompagnamento, questi comunica al destinatario di non essere in grado di inoltrargli una regolare statistica della nuova circoscrizione delle province meridionali, per il semplice fatto che nel suo Dicastero non ve n’era traccia; in compenso, gli spedisce in duplice copia le tabelle annesse al decreto del 1 aprile 1861 «relativo al numero e alla ripartizione dei Consigli provinciali»[1]. La somma degli individui censiti ammonterebbe a circa 7.400.00 unità, Sicilia esclusa.

La seconda testimonianza è tratta dai dati del primo censimento del Regno d’Italia che, per la stessa area geografica, forniscono una cifra diversa e inferiore: 6.787.000 unità.

La differenza fra una stima e l’altra è dell’ordine di oltre 600.000 unità. Come si spiega questa discrepanza?

Secondo Pino Aprile, la risposta è semplice: con il genocidio dei meridionali avvenuto a seguito della invasione sabauda.

Per avvalorare questa ipotesi, l’autore di Carnefici cita la Relazione del Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio a S. M. il Re in udienza 10 maggio 1863 sui risultamenti del censimento della popolazione del Regno al 31 dicembre 1861. Al netto delle volgarità, delle pesanti e inopportune ironie e delle divagazioni incongrue, Aprile riporta testualmente e commenta alcuni passi della Relazione, ritenendoli utili a sostenere la tesi del massacro del Sud.

Giovanni Manna

Il ministro Giovanni Manna, indirizzandosi a Vittorio Emanuele II, scrive:

«Gli ultimi stati della popolazione raccolti per cura delle Amministrazioni cadute ad epoche diverse, ma ad ogni modo poco discoste da noi, davano alle regioni onde ora componesi il Regno d’Italia la cifra di 21.601.126 abitanti. Al 1° gennaio 1862 la popolazione di fatto delle 59 provincie del Regno toccava la cifra di 21.776.953. Nell’intervallo adunque fra i rilievi ufficiali anteriori e quello ordinato da V. M. v’ha un accrescimento di 175.827 abitanti o del 0,81 p. %.

Ove la popolazione fosse cresciuta in ragione degli aumenti annui medii, determinati dal confronto dei vari censimenti, essa doveva essere al 31 dicembre 1861 di 22.234.859 abitanti.

Ma anche i risultati conseguiti ponno ritenersi come soddisfacenti, ove si faccia ragione alle gravi circostanze occorse durante il grande atto del nostro rinnovamento, la guerra cioè e le subite mutazioni politiche ed amministrative»[2].

Vittorio Emanuele II

Pervaso da santo sdegno, Aprile commenta:

«Adesso, se volete, potreste rileggere con calma e rabbrividire, oppure vi risparmio la fatica: il ministro conta gli italiani “uniti” e mette per iscritto una roba da tribunale per crimini contro l’umanità! Traduco: nel 1860, gli italiani, nei confini di adesso, erano 21.600.000 e rotti e crescevano di un tot all’anno: se ognuno fosse rimasto a casa sua, adesso sarebbero circa 22.235.000. Invece siamo arrivati ovunque noi e, dopo un anno, di italiani ne troviamo scarsi 21.278.000. Vuol dire che la popolazione è aumentata di appena 176.000 abitanti, mentre se non avessimo unito l’Italia alla piemontese, sarebbe cresciuta (fate i conti da soli, se non ci credete) di 633.733! Qualcuno vuole ancora dirmi che la parola genocidio è esagerata? In poco più di un anno, lo dice il ministro, 457.906 italiani in meno (633.733 – 175.827). E non chiedetevi cosa ha prodotto il disastro, lo scrive lui al re: è dovuto «alle gravi circostanze occorse durante il grande atto del nostro rinnovamento, la guerra cioè». Costata quasi mezzo milione di italiani. E dove si è avuta questa feroce diminuzione? Le province con il maggior calo sono in gran parte al Sud (13 su 25), e con cali altissimi, che le pongono in cima alla lista»[3].

A questo punto il lettore non del tutto sprovveduto potrebbe muovere ad Aprile una spontanea obiezione. Se vi fosse stata effettivamente una simile ecatombe di italiani, e segnatamente di meridionali, come mai un ministro del Regno d’Italia lo ammetterebbe così candidamente, e per giunta in una pubblicazione ufficiale? Niente paura. L’ingegnoso giornalista pugliese ha una risposta per tutto: «Hai quasi la sensazione» scrive Aprile «che stia misurando per sua maestà, l’enormità dell’opera compiuta, con l’entità delle vite perse sull’altare del “grande atto del nostro rinnovamento”».

Insomma, Giovanni Manna sarebbe una specie di burocrate sadico, un Eichmann ante litteram che si compiace servilmente del «genocidio» con l’autore di esso, Vittorio Emanuele II, a sua volta – evidentemente – antesignano del Führer.

Ma chi era Giovanni Manna? Di agiata famiglia napoletana, Manna fu illustre giurista: tra il 1839 e il 1842 pubblicò i tre volumi del suo corso su Il diritto amministrativo del Regno delle Due Sicilie. Ministro delle Finanze nel 1848, tornò a ricoprire la titolarità di questo dicastero in occasione della crisi finale del Regno, nel 1860. In tale veste, essendo egli in cordiali rapporti con Cavour, fu inviato a Torino per cercare un’alleanza in extremis con il Piemonte. Crollato lo Stato meridionale, Manna ottenne la cattedra di Diritto amministrativo nell’Università di Napoli. La situazione politica in cui venne a trovarsi il Mezzogiorno – scosso dal brigantaggio e soggetto alla piemontizzazione – gli impose di prendere pubblicamente posizione con lo scritto Le province meridionali del 1862. L’opera lo fece ascrivere alla corrente dell’autonomismo meridionale. In quello stesso anno fu nominato senatore del Regno e titolare del Ministero di agricoltura, industria e commercio, carica che resse fino al 1864. Morì a Torre del Greco nel 1865.

Una semplice scorsa alla biografia del Manna basta e avanza, crediamo, ad allontanare da lui l’infamante sospetto d’essere un’incarnazione ottocentesca della banalità del male.

In verità, sarebbe anche sufficiente scorrere qualche pagina della stessa Relazione del Ministro di agricoltura, industria e commercio per avere una spiegazione plausibile del presunto calo della popolazione al Sud, almeno quanto quella che attribuisce quest’ultimo al genocidio:

«Del fatto che, fra le regioni che annoverano una popolazione minore di quella indicata nelle anagrafi precedenti, si trovano molte delle province napoletane, deve forse indursi che le operazioni del censimento sieno state ivi condotte meno regolarmente che altrove? Io sono lieto di poter respingere tale conclusione ed assicurare V. M. che quelle provincie non furono da meno delle altre del Regno nel compimento del loro dovere, e che, se nel numero degli abitanti ebbe a riscontrarsi una diminuzione, ciò vuolsi attribuire al modo con cui erano raccolti per l’addietro i fatti relativi allo stato della popolazione. Ed invero si ritrae da documenti irrefragabili, che l’antica Amministrazione borbonica aveva la mala abitudine di ingrossare d’anno in anno le cifre della popolazione, senza che alle denunzie arrischiate corrispondesse la realtà. Oltre a ciò per chiarissime prove, desunte dagli Atti ufficiali della cessata Amministrazione, si è potuto acquistare la convinzione che neppure le notizie sul numero delle nascite e delle morti furono raccolte e ordinate oltre l’anno 1856, e che perciò le cifre della popolazione che vennero divulgate dopo quell’anno, e principalmente nel 1859, sebbene sieno state accolte anche in pubblicazioni ufficiali, non danno, come del resto confessano anche gli autori di quelle scritture, che cifre approssimative, senza che riesca ora di determinare quale sia stata la base delle induzioni e delle congetture statistiche adottata per quelle valutazioni; ond’è che per trovare fermi e positivi elementi di riscontro siamo stati obbligati a giovarci delle sole cifre relative alla popolazione del 1856, ultimo anno in cui si compirono in quelle provincie le indagini statistiche sul movimento della popolazione.

Ma anche prescindendo da queste volontarie alterazioni, il fatto stesso, per cui la cifra della popolazione veniva dedotta dal bilancio annuale dei nati e dei morti senza che alcun censimento numerico ne rettificasse di quando in quando la portata, spiega come ogni indicazione dovesse finire ad indurre in gravi errori e recare un numero di abitanti maggiore di quello che non si avesse in effetto»[4].

Much ado about nothing, insomma? Sembrerebbe proprio di sì. È pur vero che la paraletteratura neoborbonica ricerca appunto il rumore, nel senso di rumore informativo: tende, cioè, a presidiare tenacemente la scena mediatica, soprattutto quella dei social, bombardandola di messaggi e inibendo, per quanto possibile, le reazioni critiche o soltanto scettiche.

Resta da capire se l’esame da noi condotto, oltre a comprendere una pars destruens, suggerisca anche riflessioni costruttive. A nostro avviso, la risposta al quesito è positiva. Le falsificazioni e le strumentalizzazioni a fini politici dei dati storici, pervicacemente attuate dal sudismo, non devono farci cadere nella trappola di avvalorare le banalizzazioni liquidatorie che riassumono l’esperienza borbonica nella triade «feste, farina e forca».

La lotta al revisionismo malsano potrebbe anzi costituire un’occasione preziosa per restituire al Mezzogiorno una percezione realistica di sé stesso, lontana sia dalla grottesca corsa al primato sia dalle vane autodenigrazioni.

Tale operazione consentirebbe, in ultima istanza, di collocare il passato del Sud nella sua giusta luce, distanziandolo una volta per sempre dal presente e liberando così il futuro dei meridionali dalla sua pesante ipoteca.


[Avviso ai lettori: l’articolo che avete appena letto è la seconda parte della relazione Analisi di alcuni testi della propaganda neoborbonica, tenuta da Lorenzo Terzi durante InVito alla Storia, la terza conferenza nazionale dell’Aiph (Associazione italiana di public history), svoltasi a Santa Maria Capua Vetere dal 24 al 28 giugno 2019]


[1] Archivio di Stato di Napoli, Ministero degli affari interni, I inventario, b. 2330.

[2] G. Manna, Relazione del Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio a S. M. il Re in udienza 10 maggio 1863 sui risultamenti del censimento della popolazione del Regno al 31 dicembre 1861, in Censimento del Regno d’Italia. 31 dicembre 1861, Torino, Stamperia Reale, 1863, citato in P. Aprile, Carnefici… cit., pp. 371-372.

[3] P. Aprile, Ibid., p. 372.

[4] G. Manna, Relazione…, citata.

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