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Delitto Soleimani, retroscena di un complotto

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A quasi un mese dall’omicidio del generalissimo si dipana una ragnatela intricatissima di rapporti geopolitici e tensioni pronte a esplodere. Martire della rivoluzione per i sostenitori degli ayatollah, terrorista per gli americani e i loro alleati arabi (e sunniti), il militare iraniano è stato l’uomo di punta delle vittorie sull’Isis ed era diventato un riferimento importante del mondo scita. Ecco cosa potrebbe accadere dopo la sua morte…

L’impressionante marea umana accalcata nelle piazze e nelle strade di Teheran, affranta e inneggiante al defunto generale Qassem Soleimani, eroe nazionale e martire, stride con la glaciale precisione tecnologica delle azioni belliche odierne.

Il generale Qassem Soleimani

Moltitudini di giovani combattenti, del resto, difesero la neonata Repubblica Islamica dall’aggressione del meglio armato Saddam, e tentarono di prendere anche Kerbala, luogo santo sciita in territorio iracheno. L’azione mirata di un drone, rivendicata poi dal presidente Trump, lo scorso 3 gennaio, ha posto fine, in pochi attimi, presso l’aereoporto internazionale di Baghdad, alla vita di uno dei maggiori strateghi politici e militari, esperto d’intelligence di tutto il Medio Oriente, vero e proprio punto di forza dell’Iran contemporaneo.

Soleimani, comandante pasdaran e delle forze Qods, aveva ottenuto numerosi successi nei paesi limitrofi: è stato la personificazione del disegno iraniano di egemonia nell’area, condotto attraverso la guerra asimmetrica. Una ricetta politica e militare forte, la sua: esportare le rivoluzione addestrando milizie sciite filo iraniane presenti tra Siria, Iraq, Libano e Yemen e coordinandone l’azione.

Il generalissimo, vicino alla Guida Suprema Alì Khamenei, forse aspirava anche ad un ruolo politico di primo piano, al posto dell’attuale presidente Rohani, e si era distinto con successo nella lotta contro l’espansione dell’Isis in Siria ed Iraq. Ma questa politica aggressiva ha generato non poche frizioni con gli americani. Il braccio di ferro tra Iran e Usa si è consumato per mesi fino a culminare, lo scorso 31 dicembre, nell’aggressione di manifestanti filo iraniani all’ambasciata americana di Baghdad, che ha riportato alla mente, l’analogo evento del ’79, con la sua tragica presa di ostaggi.

Alì Khamenei, guida suprema dell’Iran

Non si conoscono gli sviluppi dell’escalation tra i due Paesi, ma finora gli Usa propendevano per una riduzione crescente della considerevole e costosa presenza militare nello scacchiere mediorientale, limitandosi a poche operazioni mirate, come è stato nelle intenzioni di Obama, che non ha combattuto il Califfato in maniera diretta. Diventato ormai primo produttore mondiale di petrolio, grazie all’innovativa estrazione dalle rocce di scisto bituminoso, l’Iran ha cercato di disancorarsi dalle dinamiche dei paesi produttori di greggio.

Certo, il petrolio non ha più la centralità di una volta, come si stanno accorgendo tutti i Paesi dell’area: lo sfruttamento delle energie alternative, a livello mondiale, ha reso molte economie meno dipendenti dalle fluttuazioni dei prezzi dell’oro nero e ha quindi disincentivato le rendite e gli immobilismi nei tradizionali Paesi produttori.

In particolare, il Paese degli ayatollah, colpito dalle sanzioni ha perso posizioni, anche se controlla circa il quindici per cento delle riserve mondiali di petrolio e ne vanta notevoli di gas naturale. Nella zona di Busher è poi presente uno dei maggiori giacimenti di greggio al mondo ed altri ne sono stati scoperti di recente.

Pasdaran in parata

La potenza iraniana aveva accettato, nel 2015, un accordo sul nucleare, in cambio dell’allentamento delle sanzioni, ma poi nel 2018 si registra il ritiro unilaterale dalle trattative della nuova amministrazione statunitense. Quest’ultima, infatti, mira a vigilare sulle rivalità per l’egemonia tra varie potenze regionali mediorientali, con un occhio anche ai traffici di greggio attraverso lo stretto di Hormuts, che più volte l’Iran ha minacciato di chiudere.

Si registrano poi le buone performance irachene nella produzione petrolifera, venduta in maniera crescente nell’energivora Cina, che forse vorrebbe entrare maggiormente in partita sullo scacchiere medio orientale.

L’omicidio di Soleimani si aggiunge alla morte del leader Isis Al Baghdadi, e a quella di Osama Bin Laden.

La risposta iraniana, almeno per il momento, è stata tutto sommato controllata, perché le élite di Teheran sono consapevoli di non potersi permettere importanti e diretti coinvolgimenti bellici, soprattutto verso avversari meglio armati e con economie in salute.

L’Iran, tuttavia, non si tira indietro dalla contrapposizione geopolitica con i sauditi. Una rivalità politica che ne incorpora una religiosa: tra islam sunnita saudita e sciita. Nel primo Paese, infatti, prevale il waabismo, che si basa su un’interpretazione riproposta dalla dinastia Saud, in nome del ritorno alle origini ed in un rifiuto del polimorfismo religioso.

Khamenei decora Soleimani

Lo sciismo, invece, riconosce invece quale primo imam il quarto califfo Ali (shiah significa fazione di Ali, e gli sciiti sono chiamati anche alidi) scindendosi dalla corrente maggioritaria sunnita, che conta circa l’80 per cento dei fedeli. L’imam è considerato dagli sciiti infallibile ed è anche leader politico.

In Arabia saudita si trovano i luoghi santi comuni a tutti i mussulmani, mentre l’islam sciita ha i suoi centri tra Iran e Iraq, nelle città di Qom, Kerbala e Najaf. Alla contrapposizione tra sauditi e iraniani si sovrappongono le differenze tra mondo arabo e origine indoeuropea dei persiani, con tutto l’importante corollario di differenze linguistico-culturali.

Gli equilibri tra le due componenti religiose del mondo islamico sono a macchia di leopardo.

La Siria è un paese a maggioranza sunnita guidato dalla minoranza sciita alauita e dalla famiglia Assad. L’Iraq è invece governato dalla maggioranza sciita, ma è presente anche un consistente numero di sunniti, prima legati a Saddam Hussein. I sunniti, inoltre, sono in maggioranza negli Emirati Arabi, in Kuwait, Egitto. Sono sciiti anche i talebani afgani e persino i gruppi dell’Isis e di Al-Qaeda.

In Libano è presente invece la milizia sciita Hezbollah che è sostenuta da Teheran, mentre i sauditi hanno come punto di riferimento il presidente Hariri, che proviene da un gruppo sunnita.

L’ex presidente iracheno Saddam Hussein

Si registra poi una destabilizzazione anche in Yemen, con il gruppo ribelle sciita degli Houti. Il confronto tra Arabia Saudita e Iran, tra sunniti e sciiti si è consumato sia in Siria che in Iraq. In quest’ultimo territorio le milizie sciite sono state impiegate in più fasi: prima contro Saddam, poi contro gli Usa successivamente per contrastare l’Isis.

Il generale Suleimani e l’ayatollah Khamenei, consideravano la Siria di grande interesse geopolitico, soprattutto dalla guerra del 2011, e hanno sostenuto Hassad, anche attraverso l’appoggio degli Hezbollah libanesi. L’Arabia Saudita, con l’attuale leader Bin Salman, ha avviato una politica di riforme e modernizzazione interna, e contestualmente ha lanciato una risposta più decisa nei Paesi vicini. Gli Usa negli ultimi tempi, hanno dato origine al più elevato livello di mobilitazione, con velivoli in movimento verso le basi del Mediterraneo e verso Giordania, Arabia Saudita e Turchia. Israele, invece, si è molto avvicinato ai sauditi e ha lanciato a sua volta incursioni aeree in Siria, per evitare la realizzazione iraniana del corridoio mediterraneo, che arriverebbe anche in Libano, a tutto vantaggio dei temuti Hezbollah. A complicare il tutto, si aggiunge la questione curda, che nello scacchiere medio-orientale è anche essa di non poco conto, soprattutto in vista del riassetto territoriale post bellico.

L’Iran deve giocare un’ulteriore partita, forse la più delicata, sul fronte interno, dove i vertici del Paese e l’attuale governo sono bersaglio di proteste e di richieste di chiarimenti: si pensi all’abbattimento del volo di linea ucraino, una casualty nelle operazioni militari di ritorsione contro gli Usa per l’uccisione di Soleimani.

Hezbollah libanesi

Ma questa è solo una delle tante scintille: il movimento di protesta, cresciuto in maniera esponenziale con l’apporto dei giovani, è motivato dalla disoccupazione fortissima, e dalle diseguaglianze sociali, che diventano esplosive in un Paese inondato dall’oro nero, in cui gli aumenti dei prezzi petroliferi hanno arricchito una élite ristretta e generato seri fenomeni di corruzione e affarismo non più tollerabili sotto la morsa delle sanzioni.

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