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Altro che principi ribelli, la monarchia inizia a morire…

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Chi plaude a Meghan (e magari la identifica con Lady Diana) non ha capito che la Corona non è un sogno hollywoodiano per borghesi annoiati ma un’istituzione, in cui le “fregnacce” contano più della sostanza e il protocollo è tutto

La vicenda di Harry e Meghan rischia di diventare un argomento in più a favore dei detrattori della monarchia. Non di quella britannica in particolare, ma addirittura dell’istituzione in sé.

Meghan Markle, la duchessa “ribelle” all’etichetta di corte

Le prime bacchettate ai duchi del Sussex sono arrivate dal Regno Unito. A partire da Piers Morgan, opinion maker di simpatie laburiste con una lunga militanza nel giornalismo formato tabloid, che ha definito ingrati i due ed esortato la Royal Family ad agire di conseguenza.

Destra o sinistra, in Gran Bretagna pari sono di fronte alla monarchia, nei cui confronti si scambiano da oltre un secolo il titolo di His Mayesty’s most loyal opposition. Anche sulla base di una convinzione ormai consolidata: una cosa sono le istituzioni, un’altra la democrazia. E poco importa se per garantire quest’ultima serve un protocollo antico, che tracima persino nei rituali del Parlamento, dove gli speaker accantonano l’inglese in favore del francese normanno e The Queendiventa La Reine. Poco importa, inoltre, se la democrazia britannica (che si è nutrita di tutto, heavy metal incluso) debba pagar pegno a cerimoniali antiquati e a un’araldica sempre più ammuffita e sempre più interpretata da personaggi non all’altezza.

Il problema, in Inghilterra, è che la monarchia, con tutto il suo calembour antiquario, è lo Stato. Quindi, tutto ciò che avviene al suo interno è affare di Stato e sono affari di Stato i rapporti tra la Corona e i cittadini, che accettano ancora il titolo di sudditi, desueto in tutte le altre monarchie costituzionali d’Europa.

Non è una questione di marchi e di immagini: senza la Corona, su cui si regge un equilibrio politico di poteri che ha del miracoloso, il Regno Unito potrebbe cessare, specie ora che la Brexit ha ringalluzzito gli indipendentisti scozzesi (i quali vogliono restare nell’Ue), Senza la Corona, verrebbe meno l’altro miracolo dell’unica Costituzione non scritta del mondo, in cui la tutela delle libertà si è sviluppata su carte medievali.

Un discorso pesante? Certo. Ma, a dispetto delle chiacchiere e delle pose da jet set, la monarchia non è una cosa leggera, sebbene tutti i monarchi del mondo commettano da sempre sin troppe leggerezze.

Il problema è che le monarchie non sono le fiabe della Disney né sogni per borghesi.

Sono istituzioni polverose. Sono, lo diciamo a beneficio degli stilisti, brand reazionari.

Sono, per dirla col grande Montanelli, contenitori di fregnacce.

Ad esempio, è una fregnaccia l’onore. Il mitico Indro, a proposito della fine della monarchia in Italia diede un giudizio tranchant: anziché scappare a Salerno, Vittorio Emanuele III doveva morire a Roma per mano tedesca per salvare la Corona. In tal caso, gli italiani, persino quelli che avrebbero votato Pci, avrebbero perdonato tutto a Casa Savoia, incluso il lunghissimo flirt politico col Duce.

Il grande Indro Montanelli

Discorso simile per Lady Diana: avrebbe dovuto far finta di nulla e durare le corna (e magari restituirle, ma con molta discrezione).

Già: le famiglie reali non sono famiglie ma istituzioni, il cui scopo è perpetuarsi, anche a dispetto dei tempi che cambiano.

Intendiamoci: possono anche essere istituzioni progressiste, ma sempre a favore dei sudditi, mai di sé stesse.

Al riguardo, calzano benissimo gli esempi scandinavi e olandesi: mai un pettegolezzo, mai una chiacchiera, mai un argomento da tabloid. Eppure queste dinastie di bacchettoni hanno guidato e guidano ancora le popolazioni più emancipate d’Europa.

Di fronte a questo popò di esempi, cosa volete che sia un cerimoniale? È il prezzo da pagare di fronte a privilegi non proprio da sottovalutare: i membri della Royal Family sono diplomatici per diritto di nascita (chiedete cosa significhi a chi, invece, diplomatico lo diventa in seguito a concorsi ed esami a dir poco micidiali, per cui essere tuttologi e poliglotti non basta), hanno ruoli da ufficiali garantiti nell’Esercito anche se privi dei requisiti fisici e possibilità di contatti e legami sociali inaccessibili a chi non c’è nato o, per vie più o meno traverse, non c’è entrato.

Il protocollo, di fronte a queste opportunità, è poca cosa. Lo ha capito sin troppoKate Middleton, che si è adeguata benissimo. E lo ancor sa meglio Letizia Ortiz, che ha rinunciato a una carriera di giornalista di successo per diventare la regina consorte di Filippo VI di Spagna.

Questo, per quel che riguarda i reali che regnano. Per quelli che non regnano, il contrasto tra le etichette (sempre meno rispettate) e la realtà è fortissimo.

 È il caso dei Savoia, ben esemplificato dalle prodezze di Emanuele Filiberto, che è passato dagli sponsor alle olive sott’olio alle comparsate a Sanremo.

Ed è il caso del ramo francese dei Borbone, il cui rampollo, don Carlo, ha ispirato un marchio di caffè e si muove con una certa agile disinvoltura tra l’araldica e il nazionalpopolare dei neoborbonici per preservarsi un ruolo.

Di fronte a questi esempi, Meghan cosa pretende?

L’unico consiglio da darle è la prudenza. È carina e, vista da dietro, è probabilmente meglio dell’antipatica Kate.

Ma questo può non bastare in un Paese dove anche i comunisti sono patrioti e i metallari e punk più trasgressivi sventolano orgogliosi l’Union Jack.

Un augurio ai due Sussex, che resteranno tali finché a Buckingam Palace qualcuno non li obbligherà a cambiare cognome.

Già, ne va di tre cose: della monarchia e del Regno Unito, di quella formidabile rete di relazioni internazionali che è ciò che resta del Commonwealth e del MI6, il Servizio Segreto di Sua Maestà.

A proposito di brand: voi proprio ce lo vedete uno 007 distratto da compiti più delicati e, scusate, importanti (tenere a bada Putin e i suoi oligarchi e fronteggiare le minacce degli integralisti), perché costretto a guardare a vista due ragazzini che pensano che fare gli influencer sia meglio che far parte di una famiglia reale?

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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